La tragedia necessaria. Da Caporetto all'Otto settembre
Il mulino, 1999
152 pp.
Due eventi, due date, due guerre.
Tragedie necessarie che l’Italia avrebbe preferito tranquillamente evitare,
quando invece la minoranza interventista ma decisa sostenne la partecipazione
alla Prima Guerra Mondiale, e i più o meno fascisti alla seconda.
Eventi. Caporetto – la “disfatta”
per antonomasia – e l’Otto settembre – l’Armistizio – così lontani nel tempo ma vicini nel parlare delle difficoltà di una nazione nel ritrovare sé stessa e
riconoscersi: l’Italia sconfitta e la ritirata dal fronte della battaglia di
Caporetto del 24 ottobre 1917 (e seguenti) e l’Italia sconfitta e in
liberazione dell’Armistizio dell’Otto Settembre 1943.
Guerre. Le incongruenze degli
interventisti così diversi fra loro, uniti dal generale Cadorna, che
rappresenta la volontà di guerra dell’Italia e le divergenze tra i vari
resistenti d’Italia, oltre che i fascisti e poi i repubblichini, ritrovatisi
dopo la guerra a fare i conti per lungo tempo tra scontri e processi.
Mario Isnenghi in un volume del
1999 intitolato appunto La tragedia
necessaria. Da Caporetto all’Otto settembre ripercorre l’Italia a partire
da questi eventi tragici, scavando tra testi e confessioni di chi ha vissuto
quei momenti, come i combattenti. La disfatta è così narrata usando frammenti
dai Taccuini di F.T. Marinetti, da La coda di Minosse di Arturo Marpicati,
il Diario di un imboscato di Attilio
Frescura, Dal Carso al Piave di Mario
Puccini, Caporetto di Giuseppe Prezzolini. Scaturiscono allora e
si confrontano, i racconti di Caporetto, «un immaginario complessivo in
convulsa trasformazione», racconti che nel dopoguerra contribuiranno alla
lettura edificante di una vittoria nata anche dalla «benefica scossa di
Caporetto».
Caporetto resta l’evento della
Prima Guerra Mondiale che più parla dell’Italia, di quel «“noi” difficile degli
italiani», ancora di più di Vittorio Veneto, per le sue antitesi negli sviluppi
e nelle ricostruzioni. Da queste complessità e dall’idea di vittoria mutilata, si sviluppano
sentimenti e aggregazioni nazionaliste, il fiumanesimo
e l’eroismo ribelle alla D’Annunzio, un protofascismo che misto alla retorica e
gran dialettica affermerà il suo Duce. Ben presto però, Mussolini darà miti all’Italia su cui costruire una identità e il suo sviluppo, e sarà
costretto a cancellare le complessità della sconfitta. D’altronde, anche i
democratici tenderanno a smussare la disfatta, incolpando i militari per i loro
errori tecnici. Limitativo se si considera invece il dissenso dei soldati, le
masse militarizzate che non si riconoscono né nella patria né in quella guerra.
In questi termini, una vergogna inaccettabile per l’impero statale del
fascismo.
Un’altra guerra, contraddizioni a
noi più vicine cronologicamente, e ancora masse ancor più retoricamente
militarizzate e in crisi di identità. La liberazione-invasione e l’armistizio,
il desiderio di sconfitta della patria o l’apatia di un esercito stanco e
sbandato.
Il dieci luglio, gli anglo-americani sbarcano in Sicilia; è la fine, ma nessuno sente il peso della disfatta. «Se qualcuno è sconfitto non siamo noi, sono i tedeschi, sono i fascisti», dicono i più. Già cerchiamo le attenuanti e giochiamo con la nostra coscienza. La disfatta non sarà una disfatta perché nessuno si crede colpevole: la colpa è tutta del Duce! Siamo stati ingannati, sopraffatti, non battuti. Nel nemico si scopre il liberatore: tutto diventa più comodo.
Leo Longanesi, In piedi e seduti, 1948