Ispirato dal racconto breve di Wilhelm Jensen, Gradiva, Luigi Fontanella trasforma la
storia onirica che sta alla base della narrazione, in un delicato e
appassionato poema in versi che vuol essere sostanzialmente una dedica alla
sublimità della bellezza femminile, all’icona onirica per eccellenza che
alternativamente compare e scompare dai reali luoghi di pompeiana memoria. Ed è
proprio all’interno di una successione di elementi contrapposti, (« il sogno e
la realtà», «l’agilità del passo femminile e leggero …» colto sull’ «ultima
pietra immobile») e complementari (nel connubio di «spirito e vita», di «luce
dorata nella giornata di rovente sole», in un gioco di luci e trapassi continuo)
che si staglia l’immagine di questa straordinaria donna, Gradiva, sfuggente, ma
fisicamente presente nella mente di chi la osserva ed elegge a protagonista del
proprio Io reale.
In questo quadro scenografico di avvicendamenti, Zoe-Gradiva
ricompare «sulla via di Mercurio», sugli stessi ciotoli di pietra dura che ora
accolgono, in un luogo geografico che non appartiene alla poetica montaliana ma
che ne rinvia agli oggetti desueti in essa situati, una lucertola avvolta
anch’essa da «riflessi d’oro e malachite»; allo stesso modo la donna,
attraente, emblematica, misteriosa e magra, è una figura allegorica che si
presenta avvolta da immagini simbolicamente esemplari:
Lei invece d’improvviso
ricomparve
sulla via di Mercurio
di luce dorata avvolta…io
intravidi
subito il suo profilo, il suo
passo
agile e leggero, pura
immagine di sogno ma reale.
Sull’ultima pietra del suo
passaggio
se ne stava immobile
distesa sotto il rovente sole
una grande lucertola, che
m’inviava
fino agli occhi
riflessi d’oro e malachite.
[…] Non chiamarmi
Gradiva, il mio nome è Zoe,
non spirito sono, ma vita.
[…]
Lucidi i bei capelli bruni
La fronte alabastrina, due
occhi
fissi e scintillanti su di me
“Sei tu Atalanta la figlia di
Iafo?
O discendi dalla famiglia del
poeta Meleagro”[1]
Il racconto dell’uomo attratto da Zoe si scioglie nel bel componimento
in versi: il lettore può seguire vari itinerari di rappresentazione letteraria:
il percorso reale del personaggio, stranito dall’indiscutibile bellezza della
donna, cammina tra «ignoti sentieri e caseggiati in vista» che conducono verso
un moderno «Albergo del Sole». La mente dell’uomo si immerge nel pensiero fisso
di Zoe: la fantasia onirica diviene affresco storico con il rinvio ai «ruderi
del grande anfiteatro pompeiano», ove è rimasto il calco di due giovani
amanti a testimonianza dell’evento passato. Ma la successione di immagini,
lontane e desuete, riporta per un attimo alla realtà l’uomo, infastidito dal
ronzio delle mosche e incuriosito dal fermaglio femminile rimasto vicino alla
cenere. I versi giocano una strana
disputa tra storia e presente, tra tragedia e bellezza, tra accordo
sinfonico della natura e disaccordo tra antichità e modernità, in una
divaricazione costante tra l’io e il mondo, tra «la stupenda sensualità che
tutto minia e accende» e « il teatro di dossi, ebbri, calcinati» in ciò che
Pasolini definiva «i due mondi»[2].
A lungo girovagai immerso
nei pensieri finché i miei
passi
mi spinsero per un ignoto
sentiero
di fronte ad un caseggiato
mai
visto prima, presso i ruderi
del grande anfiteatro
pompeiano
ove sorgeva un altro
domicilio
“L’Albergo del Sole “…Entrai
per rinfrescarmi un poco,
vuota
era la sala d’ingresso se non
per il fitto
ronzare delle mosche in
aria.[…]
“Una giovane coppia di amanti
di fronte alla catastrofe
si era stretta in un ultimo
abbraccio…guardi, questo è un
fermaglio
raccolto nella cenere accanto alla ragazza”.[3]
In preda ad un stato d’animo di profonda e inconsolabile
afflizione, ecco apparire in «angolo del
portico» Lei, donna d’incomparabile bellezza, altera perché «seduta su un alto
gradino» e altrettanto riconducibile al tempo presente coi i piedi «penzoloni
nelle scarpe color sabbia» che sottolineano l’appartenenza ad una concretezza
oggettiva associata al suono della sua voce.
Ideale, illusoria, immaginaria è l’atmosfera che si crea attorno
al quadro poetico creato da Luigi Fontanella. Estroso, ironico e «danzante» è,
invece, il duello giocato tra il cammino e la fuggevolezza che si instaura tra
Zoe e l’uomo, una favola poetica in cui manca la risoluzione di alcuni tasselli
peculiari ad una vera storia d’amore e in cui persiste il desiderio/assenza di
richiesta dell’uomo: Zoe poteva e doveva « rimanere dov’era».
E proprio
in un angolo del portico ove
mi aggiravo
sconsolato la vidi
all’improvviso
riapparire. Era proprio lei
seduta su un alto gradino
i suoi piedi penzoloni
nelle scarpe color sabbia.
Il mio primo moto fu di
fuggir via
tra due colonne del giardino.
Ma
mi fermò la sua voce…Mi
parlava
mi interrogava con pacata
ironia
insieme ad un sorriso lieve e
gaio pian piano
scioglieva l’intrico del mio
rovello. “Ti è riuscito poi
di acchiapparla quella mosca
sulla mia mano? Hai fatto
tutta questa strada
per far di me esperienza
quando avresti potuto restare
dov’eri…[4]
In un cammino a tratti condiviso, che giunge alla strada dei
sepolcri d’Ercolano, il racconto quasi rapsodico ci rivela espressioni di
“varia umanità” che evidenziano come tra i due personaggi vi sia anche un’affinità
simbiotica apicale: Zoe Gradiva comprende con un sorriso invitante l’ «estrema
fantasia» di lui e acconsente al suo pensiero erotico «sollevando l’abito con
la mano» ed è dunque rapita dal suo sguardo affascinato; l’uomo, con
un’immagine redivivus teatrale, perde il contatto con la realtà in un
intenso assorbimento fantastico per lo più rivolto al passato.
Giunti alla Porta d’Ercolano
là dove la strada consolare
ha per pavimento le antiche
pietre laviche
mi fermai…
Pregai Zoe Gradiva rediviva
di precedermi…
Sorridente, lei capì la mia
estrema fantasia.
Sollevò un po’ l’abito con la
mano
e avvolta dal mio sguardo
trasognato, attraversò agile
e leggera quel lastricato
sotto un sole che tutto
sfavillava
sogno, visione ed esistenza
vera.[5]
Il componimento lirico di suggestione epica, ispirato al
soggetto letterario e alla figura di fanciulla riprodotta in un bassorilievo
antico, è rivisitato poeticamente da Luigi Fontanella che proietta il lettore
in una duplicità di rappresentazione letteraria: un efficace realismo che ben
si coniuga con le atmosfere surreali dell’inconscio; è infatti dall’accostamento
di termini ossimoricamente molto presenti nel poema che sprizza una luce
particolare, una luce dell’immagine per cui i due personaggi del racconto
onirico si mostrano infinitamente sensibili e il valore di ogni sequenza
poetica dipende, come affermavano i surrealisti, dalla bellezza della scintilla ottenuta:
Noi combattiamo sotto tutte
le forze l’indifferenza poetica, la distrazione d’arte, la ricerca erudita, la
speculazione pura, non vogliamo avere niente da spartire con i piccoli o con i
grandi risparmiatori dello spirito. Tutti i cedimenti, tutte le abdicazioni,
tutti i tradimenti possibili non potranno impedirci di[6]
coltivare l’esperienza vissuta dell’incontro amoroso,
valorizzando l’eterogeneità e l’incompatibilità di ordini sulle esperienze, sul
ruolo dell’amore e della donna.[7] La
particolarità dell’incontro, la dissonanza tra esperienze e la ricerca poetica
ed extraletteraria divengono quindi per l’autore fonte costante di ispirazione
e di scrittura.
[1]L. FONTANELLA, Bertgang Fantasia
onirica, Bergamo, Moretti &
Vitali, 2012, p. 27-28.
[2] P. PAOLO PASOLINI, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti,
2003, p. 51.
[3] Ivi, p. 35.
[4] Ivi, p. 51.
[5] Ivi, p. 60.
[6] A. BRETON, Manifesti del surrealismo, Introduzione
di Guido Neri, Torino, Einaudi, 2003, pp. 40, 69.
[7] Ivi, p. 10-11.
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