di Domenico Starnone
Einaudi, 2014
pp. 138
€ 17.50
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Si può cominciare un libro e prendere subito uno schiaffo? Non sembra molto edificante, eppure lo schiaffo c’è, diretto e sonoro: «Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie». Allora, esiste pure un marito e si capisce che non funziona qualcosa in questo menage. Lui: Aldo. Lei: Vanda.
La prima parte di questo bellissimo libro, si può scrivere libri bellissimi anche andando poco oltre le 100 pagine e sopportando il richiamo continuo a Elena Ferrante a cui Starnone è sottoposto, sono le lettere che Vanda scrive al marito, riportando l’enorme umiliazione che vive dopo essere stata lasciata. E quindi esiste un’altra lei: Lidia, intelligente, colta, ambiziosa. Più giovane. Tra le righe, Vanda ammicca anche a quest’ultimo aspetto, si sente una pezza vecchia, ma ciò che porta Aldo a fuggire per anni da casa non è l’elemento anagrafico quanto la sensazione di uscita da un isolamento dove tutto è percepito come colloso. Economicamente ed esistenzialmente.
La famiglia, una propria famiglia, che quando Aldo e Vanda si sono sposati, molto giovani, viene vista come elemento di emancipazione, fuga da autorità paterne opprimenti, siamo negli anni Sessanta, nel giro di poco diventa lo scrigno di una rassegnazione borghese rispetto al quale l’uomo deve reagire rivendicando autonomia. E Aldo trova Lidia. Una molla per la sua ambizione a singhiozzo, lo stimolo a prendere di petto una carriera professionale che tocca il suo momento migliore con la scrittura di sceneggiature televisive e la frequentazione di un certo bel mondo. Quando si dicono le coincidenze: ma non è detto che non siamo noi stessi a incanalare e dirigere le energie positive con scelte liberatorie che aprono porte altrimenti serrate.
Tuttavia, Aldo è un vigliacco ed è la sua vigliaccheria a emergere nella seconda parte del libro. Quando sia lui che Vanda sono alle soglie degli ottanta anni, vivono assieme e partono per una settimana a Gallipoli. Al ritorno, trovano il loro appartamento devastato. Aldo comincia perfino a congetturare sui possibili colpevoli individuandoli in due soggetti che prima della vacanza ha incrociato per motivi diversi. Nel tentativo di riordinare le cose, trova le lettere che Vanda gli aveva scritto all’epoca dell’abbandono del tetto coniugale. Emerge allora il suo di punto di vista, quello di uno scribacchino d’insuccesso, rientrato nei ranghi dopo l’esperienza di Lidia non perché spinto da carica emotiva o desiderio di fare pace con la coscienza. O per Vanda. Aldo torna dopo un incontro con i figli, anch’essi trascurati ma un po’ meno della moglie, che mette in moto un ingranaggio inerziale, pigro, indolente che lo ricondurrà a casa con una sensazione brutta di fondo: e se Lidia si rivelasse una seconda Vanda? Quando Aldo si accorge che in realtà ha amato Lidia per tutta la vita è, ovviamente, troppo tardi. Ha pensato a questa donna, l’ha incontrata di nuovo, l’ha immaginata vecchia ma sempre curata, truccata. Nuda come all’epoca della loro passione.
E Vanda? Si riprende Aldo, gode per la serenità perduta del marito ma regala una frase inequivocabile: «Ora che sono vicina agli ottant’anni, posso dire che della mia vita non mi piace niente». Soprattutto dopo due esperienze come la fine di un amore seguita dallo strazio del ritorno.
I figli: Aldo e Vanda hanno avuto un maschio e una sorella più piccola di quattro anni. Il primo colleziona eredi da donne diverse, la seconda è arrivata oltre i quaranta senza grandi prospettive. Ultimamente, per una questione di eredità pare non si guardino neppure. Invece lei trascina lui nell’appartamento dei genitori mentre questi sono a Gallipoli provando a imporgli una strana idea per risollevare le sue sorti economiche. Quando erano bambini hanno dimostrato ad Aldo, nel pieno della storia con Lidia, come i figli abbiano il bisogno della presenza e dell’aiuto di entrambi i genitori. Sono stati responsabili della ricomposizione di un disamore. Tramite una banalità: i lacci delle scarpe. In un bar, hanno infatti ricordato come sia stato il padre a insegnare a farlo. Forse è andata così, forse no. Questo singolare modo di annodare i lacci delle scarpe è tuttavia nevrotico, insistito, mi verrebbe da dire: malato. Perché sono così i lacci sentimentali che questa famiglia tenta di riannodare nel corso dell’esistenza. Inutilmente. C’entra poco il senso di colpa quanto piuttosto la vera sostanza del perdono, che si riduce a una mera apparenza sovrastata dall’urto di nevrosi inguaribili.
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