Nella terza e ultima raccolta dedicata alla Grande Guerra
con estratti da I vinti di Caporetto
nella letteratura di guerra di Mario Isnenghi, riprendiamo alcuni momenti
importantissimi dell’analisi della sconfitta di Caporetto.
Giuseppe Prezzolini
analizza le difficoltà di fondo dell’affrontare una guerra per l’esercito
italiano, e Aldo Palazzeschi – con il tipico vigore – attacca una guerra
“d’Annunziana” voluta a tutti i costi senza però fare i conti con la realtà.
Carlo Emilio Gadda invece si preoccupa enormemente per la sua reputazione di
soldato dopo la sconfitta (e ciò ci dice
molto sul valore dell’arruolamento anche tra gli intellettuali dell’epoca) e
della patria stessa, tanto da dedicare parole durissime contro chi ha contribuito
alla sconfitta.
Interessante invece l’analisi di Aldo Plazzeschi e Curzio
Malaparte che vedono in maniera diversa un comun atteggiamento di ribellione da
parte dei soldati verso i comandi e i loro superiori.
NdA:
le pagine di riferimento sono quelle del volume di Mario Isnenghi I vinti di Caporetto nella letteratura di
guerra (Venezia, Marsilio, 1967)
Giuseppe Prezzolini,
Dopo Caporetto Edizioni La Voce,
Roma, 1919
Il soldato italiano è il punto fondamentale sul quale
bisogna fermarsi., perché è stato l’agente principale della catastrofe. […] Il
soldato italiano non è mai stato, né poteva essere, l’eroe continuo che
raccontano i giornalisti: non poteva esserlo perché non lo è in nessun paese
del mondo e tanto meno nel nostro che non ha avuto una tradizione militare.
Le
guerre del nostro Risorgimento oggi ci fanno sorridere. La Cernaja costò 18
morti all’esercito Piemontese. Tutte le battaglie insieme del Risorgimento
danno una cifra di perdite non maggiore di quella di un grosso combattimento di
oggi: 6000 morti. L’unità d'Italia è stata definita un terno al lotto. Non è costata né molte fatiche né grandi
sacrifici. Non avemmo capi militari e non formammo una tradizione militare. Le
guerre coloniali d’Eritrea e di Libia hanno confermato questa esperienza.
Oltre
a mancare di disciplina militare, l’italiano manca di quella disciplina civile
che, come in Inghilterra, si è potuta trasformare in disciplina militare quando
se ne è sentito il bisogno.. se l’ufficiale è lo specchio della borghesia, il
soldato è lo specchio del popolo: e ambedue non differiscono molto perché un
popolo ha la classe dirigente che sa esprimere dal suo sangue, e la classe
dirigente ha il popolo che sa educare e dirigere. Ogni popolo ha i padroni che
si merita e ogni padrone ha i servitori che sa scegliere.
Il soldato italiano non ha molte qualità militari, salvo lo
slancio nell’attacco, purché abbia capi che paghino di persona e ispirino
fiducia. Allora lo si porta dove si vuole.
Manca però di voglia di lavorare, non ha molta precisione, né amor
patrio, poca disciplina, debole senso
del dovere. […] Perché un soldato italiano si rivolti occorre che ogni limite
umano sia sorpassato. Il suo sfogo è piuttosto la parola che l’atto. E anche
nella recente catastrofe è stato piuttosto con la passività che ha dimostrato
fino a quale punto era stanco e scontento.
(pag. 220-221-222)
Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli, Firenze,
Vallecchi
Errori di comando? Mancanza di energia? Di previsione?ce
ne saranno stati senza dubbio; ma non di tal misura da render necessario e naturale
quello che è poi successo. Tutto ciò può aver avuto la sua influenza: ma nulla
lo giustifica. Nulla.
Possono essere state, quelle, cause concomitanti ma la
ragione vera? La ragione capitale?[…] Sono forse costoro dei vinti, dei
disertori, dei rivoltosi, dei traditori? O sono – diciamo la parola – dei
vigliacchi?
No. basta vederli. Basta lasciar entrare la loro anima
nella nostra. E il male non è qui. sono delle vittime. sono degli incoscienti.
Sono degli illusi. Noi siamo il fiore, oggi languente di un pianta che ha le
sue radici nella miseria. Il male è nelle radici. Il male è laggiù sotto di
noi: nell’ignominia di chi divide, di chi baratta, di chi mente, di chi
mercanteggia. Di chi abbandona.
Il male è dappertutto; ma non è qui.
Qui si soffre soltanto. Non è la via dell’infamia qui. è
la via della croce.
(pag. 233-234)
[…] Ma l’importante sarebbe di capire bene questo: che
tali errori e tali colpe [della disfatta di Caporetto] di carattere militare
non posson bastare in nessun modo a spiegare un avvenimento che non è di
carattere militare, ma politico e psicologico.
[…]
I soldati se ne andavano, svaligiando? Ubriacandosi?
Cantando e urlando che la guerra l’avevan fatta finir loro? Ebbene! Che cos’era
questo se non rivelare uno stato della
coscienza creato dietro di noi, e che troppo pochi fra noi avevan fatto quel
che potevano per modificarlo prima?
[…] Ho visto delle centinaia di migliaia d’uomini che
venivano via – la più gran parte per un ordine ricevuto. Ho visto della gente
che non fuggiva; ma abbandonava il lavoro. Degli scioperanti.
(pag. 234-235)
Carlo Emilio Gadda
Giornale di guerra e di prigionia,
Torino, Einaudi 1965
Oh! Con quali parole, con quali affermazioni potrò
smentire la taccia di vile che mi sarà fatta in eterno? Qual forza di
chiacchiere o di sdegnoso silenzio potrà
conferire altrui la certezza ch’io fossi un bravo soldato? Nessun
documento mi rimane, nessun vivo ricordo della mia vita nelle battaglie. Non
fotografie, non lettere di superiori, non premi di sorta. Avendo girato qua e
là in diversi reparti come potrò
rintracciare i capi che mi hanno visto
al mio posto?
(pag. 244)
Il castello di Udine,
Einaudi
Mi cresce l’odio livido, immoderato, senza fine in
eterno, contro i cani assassini che hanno consegnato al nemico tanta parte
della patria, tanti dei loro, tanti anni della nostra vita: contro quei cani
porci con cui mi fu d’uopo litigare in treno, negli orrendi giorni del primo
novembre, affinché non cantassero, mentre i tedeschi invadevano il Veneto, che essi avevano loro messo nelle
mani. Cani, vili, che mi hanno lacerato e insultato, possano morir tisici, di
fame: sarebbe poco. Ne conosco alcuni: se li vedessi morire riderei di gioia.
Li odio ben più dei tedeschi; vorrei essere un dittatore per mandarli al patibolo.
(pag. 245)
Aldo Palazzeschi Due imperi … mancati, Firenze,
Vallecchi, 1920
Gabriele d’annunzio apre e chiude la malaugurata stagione
della guerra. la guerra d’Italia come fu fatta
altro non è che una spacconata d’Annunziana senza senso, senza abilità senza
profitto. E ve l’ha guarnita per tutti i suoi giorni, infiorata, incoccar data,
di inni, odi e canzoni, orazioni invocazioni, imprecazioni, inaugurazioni,
commemorazioni e avventure d’ogni specie; sulla terra e per l’aria, sotto e
sopra l’acqua, come si fosse trattato di una rande partita ginnastica , un
torneo nel quale tutte la gioia dei muscoli e dei polmoni dovessero avere a
pino il loro sfogo.
Senza neppure domandarsi
che razza di guerra fosse mai quella che si doveva combattere, senza
curarsi come fossero gli uomini ai quali veniva imposta, nulla.
(pag. 248)
Curzio Malaparte,
Rivolta dei santi maledetti Roma,
Edizioni della rassegna internazionale , 1921
Il fenomeno di caporetto è un fenomeno schiettamente
sociale.
È una rivoluzione.
È la rivolta di una classe, di una mentalità, di uno
stato d’animo, contro un’altra classe, un’altra mentalità, un altro stato
d’animo.
È una forma di lotta di classe.
I sintomi che l’hanno preceduto e accompagnato sono
quelli di un perturbamento sociale: sono gli stessi che hanno preceduto e
accompagnato tutti i perturbamenti sociali.[…]
La fanteria, cioè il popolo delle trincee, era diventata
una “classe sociale”, con una mentalità propria, nettamente antiborghese e
pacifista. […]
La frase « Dio voglia che arrivino a Roma» era su le
bocche di tutti: ufficiali e soldati., l’odio contro chi aveva strillato nelle
piazze, contro chi era rimasto indietro, contro chi speculava sul sangue,
contro chi si gloriava d’esser in trincea e di far la guerra pur rimanendo in
pianura, contro chi sfruttava il sacrificio dei combattenti per fregiarsi di
nastrini e di distintivi, l’odio per chi non capiva o non voleva capire, per
chi faceva il patriota a spese degli altri martoriava il cuore e la bocca degli
eroici pezzenti del Carso e degli Altipiani.
(pag. 269)
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