L'opera di Anna Maria Ortese (1914-1998), scrittrice italiana, è ancora in attesa del dovuto riconoscimento nel suo paese natìo. La sua scrittura è stata accomunata al realismo magico, ma la commistione di fantastico e reale è un tratto da lei declinato in maniera talmente originale da distaccarsi da ogni etichetta. Nel 2014 è ricorso il centenario della sua nascita, un’occasione per riscoprire le opere della Ortese, che in vita non ha goduto della dovuta attenzione. Nelle università angloamericane – dove sono sempre più numerosi gli studi e i corsi a lei dedicati – convegni, dibattiti e pubblicazioni hanno omaggiato la scrittrice nel corso dell’anno che si sta concludendo, come ad esempio la giornata di studi che si è tenuta a Oxford il 22 novembre, a cui hanno partecipato i più grandi esperti della scrittura Ortesiana. Con l’intento di invitare a una lettura più approfondita della Ortese, propongo qui l'incipit del racconto Un paio di occhiali, che apre la raccolta Il mare non bagna Napoli. Libro incompreso che causò alla sua autrice l’emarginazione dalla città, Il mare non bagna Napoli è rappresentazione letteraria dello spaesamento procurato dalla Napoli del dopoguerra. Uno spaesamento dovuto non solo alla visione esteriore della città/mondo, ma anche a quella interiore. Una nevrosi che è un tutt’uno con la vita e la scrittura della Ortese, provocata dal cozzare della realtà con l’immaginazione, come scrive lei stessa: “erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra. Ma Napoli era città sterminata, godeva anche d’infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici. Io, invece, mancavo di radici, o stavo per perdere le ultime, e attribuii alla bellissima città questo speasamento che era soprattutto mio”.
Per ulteriori approfondimenti su Anna Maria Ortese rimando alla monografia a lei dedicata da Monica Farnetti:
Un paio di occhiali, da Il mare non bagna Napoli, Adelphi 1994, pp. 15-16.
“Ce sta ‘o sole... ‘o sole!” canticchiò, quasi sulla soglia del basso, la voce di don Peppino Quaglia. “Lascia fa' a Dio” rispose dall'interno, umile e vagamente allegra, quella di sua moglie Rosa, che gemeva a letto con i dolori artritici, complicati da una malattia di cuore, e soggiunse, rivolta a sua cognata che si trovava nel gabinetto: “Sapete che faccio, Nunziata? Più tardi mi alzo e levo i panni dall'acqua”.
“Fate come volete, per me è una vera pazzia,” disse dal bugigattolo la voce asciutta e triste di Nunziata “con i dolori che tenete, un giorno di letto in più non vi farebbe male!” Un silenzio. “Dobbiamo mettere dell'altro veleno, mi sono trovato uno scarrafone nella manica, stamattina”.
Dal lettino in fondo alla stanza, una vera grotta, con la volta bassa di ragnatele penzolanti, si levò, fragile e tranquilla, la voce di Eugenia:
“Mammà, oggi mi metto gli occhiali”.
C'era una specie di giubilo segreto nella voce modesta della bambina, terzogenita di don Peppino (le prime due, Carmela e Luisella, stavano con le monache, e presto avrebbero preso il velo, tanto s'erano persuase che questa vita è un gastigo; e i due piccoli, Pasqualino e Teresella, ronfavano ancora, capovolti, nel letto della mamma).
“Sì, e scàssali subito, mi raccomando!” insisté, dietro la porta dello stanzino, la voce sempre irritata della zia. Essa faceva scontare a tutti i dispiaceri della sua vita, primo fra gli altri quello di non essersi maritata e di dover andare soggetta, come raccontava, alla carità della cognata, nonché non mancasse di aggiungere che offriva questa umiliazione a Dio. Di suo, però, aveva qualche cosa da parte, e non era cattiva, tanto che si era offerta lei di fare gli occhiali ad Eugenia, quando in casa si erano accorti che la bambina non ci vedeva. “Con quello che costano! Ottomila lire vive vive!” soggiunse. Poi si sentì correre l'acqua nel catino. Si stava lavando la faccia, stringendo gli occhi pieni di sapone, ed Eugenia rinunciò a risponderle.
Del resto, era troppo, troppo contenta.
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