Villa Gradenigo
di Giuseppe Bevilacqua
Einaudi, “L’Arcipelago”, 2011
Einaudi, “L’Arcipelago”, 2011
pp. 117
€ 12,00
€ 12,00
A proposito dell’annata letteraria 1982, Sergio
Pautasso inseriva Il gelo – ultimo
tassello della trilogia de Gli anni
impossibili di Romano Bilenchi – tra le prove migliori del tempo,
aggiungendo come non fosse “casuale che, in un momento di crisi come l’attuale,
la risposta più alta arrivi proprio da uno scrittore schivo e appartato, che
addirittura riprende un filone che risale a quarant’anni fa [i precedenti La siccità e La miseria erano degli anni ‘40], a dimostrazione che il tempo
della letteratura è altro rispetto alle cadenze annuali che seguiamo in queste
rassegne.” Bilenchi, come più avanti Moravia e Samonà al tempo dello sdegno di
Bo sui romanzi contemporanei (“Perché li hanno scritti?” – si chiedeva, il
critico dell’Ermetismo, faticando a trovarne uno cui dare il Campiello, nel
1989), era allora un grande vecchio della letteratura italiana; l’aveva
attraversata, dagli anni Trenta fin quasi alla fine della Prima Repubblica
(morì nel 1989), consegnando un’opera di qualità, stilistica e perciò etica,
unica, in cui non una parola era stata scritta al di fuori dell’intima necessità,
in cui tutto era autentico e mai superfluo; e questo anche a costo di decenni
di silenzio, in cui la possibilità della letteratura era sembrata sbiadire,
davanti all’urgenza politica, al giornalismo. Quello che Il gelo consegnava, secondo Pautasso, alle lettere italiane di
trentadue anni fa, era un messaggio di rigore e di misura, di serietà e di
eticità – di stile – che rimetteva a dritta la barra della letteratura,
smarrita tra operazioni commerciali che stavano polverizzando il sistema
letterario nazionale e il tana libera tutti delle scritture giovanilistiche che
proprio allora prendevano piede. E ci volle un grande vecchio, perché un
messaggio del genere, inappellabile, necessario, potesse essere scritto e
gettato, con l’umiltà dei grandi, nell’agone letterario.
Per quanto siano passati quasi tre decenni, nulla
è cambiato tra quel tempo e questi anni, per quanto riguarda lo stato
dell’arte, della letteratura: il mercato – benedetto, maledetto – piega alle
sue esigenze le ragioni dell’arte, e volentieri lo scrittore, o chi per lui, vi
si piega. La necessità della scrittura – la sua ragione – è una domanda che è
sconveniente fare, per il romanzo anzitutto: le ragioni del romanzo riposano
nel volontarismo più schietto (scrittori che siedono e scrivono, beati loro,
nient’altro avendo in testa che il desiderio di raccontare qualcosa) o nel
bisogno (urgenza adolescenziale) di testimoniare (da cui la proliferazione di
storie narrate dalle stesse vittime – fisiche e metafisiche, si veda in tal
senso il recente Critica della vittima
di Daniele Giglioli). D’altro canto, il sempre presente bisogno di storie
garantisce lunga vita al romanzesco, agli epigoni degli epigoni che replicano
stancamente modelli precedenti, giustificati dalla difesa di Norimberga
dell’editoria (“Se vende, funziona, e funziona perché è ciò che si vuole” –
funzionalità dell’editoria) e della critica letteraria (“Non essendoci di
meglio, censiamo il presente svincolandoci dai parametri di un tempo” –
funzionalità cortigiana della critica). Stando così le cose, parendo cioè di
riflusso la condizione delle lettere nazionali e non, anche oggi pare che le
migliori testimonianze, i più alti tentativi di letteratura ci arrivino, quasi
sempre, da grandi vecchi delle lettere, scrittori, accademici, umanisti che si
confrontano con il romanzo – che ne tentano la strada – fidandosi, pur
tragicamente coscienti dei suoi limiti, di esso come strumento di conoscenza,
forma che assolve a funzioni più alte e ampie che non il solo intrattenimento.
E’ il caso, tra gli altri, del recente Tutto
quel che è la vita di James Salter (1926), di Un’altra vita di Per Olov Enquist (1930) e, in Italia, di questo Villa Gradenigo, di Giuseppe Bevilacqua,
pubblicato nel 2011 nell’ “Arcipelago” Einaudi, vincitore del premio Giovanni
Comisso 2012.
Trevigiano di nascita, già fine traduttore, oltre
che curatore, di poeti tedeschi – su tutti, Paul Celan – insigne germanista,
allievo a Ca’ Foscari di Ladislao Mittner, professore all’Università di Firenze,
Giuseppe Bevilacqua ha scritto con Villa
Gradenigo un libro, non più di un centinaio di pagine, che per lo stile
nitido e la pagina levigata, per l’incanto con cui tratta un tema solo
apparentemente usurato (l’adolescenza e la scoperta del mondo) e la misura con
cui dà voce al proprio passato, trasfigurandolo in quello di un’intera
generazione e quindi di un’intera nazione, merita un posto singolare nella
produzione letteraria di questi anni.
La scoperta del mondo per Maurizio, adolescente
sul finire degli anni Trenta, avviene nel mondo incantato e sospeso nel tempo
della villa secentesca di famiglia, nel cuore della provincia veneta. Davanti
ai suoi occhi, piccoli eventi, figure, riti, uno dopo l’altro si presentano,
ghirlanda di episodi a formare una tipica Bildung
dell’alta borghesia (e dell’aristocrazia) europea anteguerra. Dapprima le
piante e gli animali: la paulownia, i pesci del fonte, la pesca, e poi bisce
d’acqua, rane, serpi, farfalle, libellule; quindi le cose e le persone: la
soffitta e le anticaglie, la gente di Borgo, i domestici; infine, gli eventi
“spie” del futuro, alfieri della formazione: le prime letture, i classici con
Don Giacinto, la fine del cugino Armando e gli echi di guerre che da lontane si
fanno vicine e minacciose, la vacanza al mare e in montagna, infine
l’Arcangela, prima musa carnale dell’amore, con cui abbracciarsi e stringersi e
cui aggrapparsi cercando soddisfazione, ignari e coscienti, alla propria
pubertà. Tutti questi episodi, che sfumano l’uno nell’altro, fanno emergere,
attraverso gli occhi di Maurizio, nuovi a tutto, un tempo lontano e perduto,
che vive ormai nei racconti della generazione di Bevilacqua, e nei romanzi di
formazione, essenzialmente anche se non unicamente mitteleuropei e veneti e
giuliani, di cui Villa Gradenigo è
ultimo prezioso tassello. Perché è questo che fa di Villa Gradenigo un libro bellissimo: il suo essere profondamente
correlato e inserito nel solco di una letteratura (genius loci e non solo) che lo precede e di cui esso è esemplare
continuazione, di una letteratura – e di un tema letterario, il romanzo di
formazione, la formazione tout-court
in chiave italiana, la formazione mitteleuropea della borghesia più di tutte
aperta al mondo austriaco dove questa classe meglio interpretò e svolse il suo
ruolo tra Settecento e Novecento – che ha avuto i suoi vertici italiani con Gli anni ciechi di Pier Antonio Quarantotti
Gambini (contando anche L’onda
dell’incrociatore), il più spesso e stratificato Ernesto di Saba, la gioventù narrata con candore e sottigliezza nei
Giochi d’infanzia di Comisso, fino
all’Adolescenza del tempo di Renzo Rosso. Il passato di Bevilacqua non è
rievocazione memoriale fine a se stessa, non esaurisce il suo senso nel suo
racconto, né svolge una funzione unicamente autobiografica: esso è luogo di
conoscenza, in cui ci si ritrova, indipendentemente dal tempo che si vive,
tutti; è un passato che racconta di un mondo sparito – e sparito tra quali e
quante amarezze, quali e quanti crolli e crepuscoli di mondi, epoche e classi –
attraverso il racconto del tempo mitico, perduto e sparito per eccellenza,
l’adolescenza, irripetibile per ciascuno, mitologia di tutti.
Così, il romanzo di Bevilacqua, che quasi non ha
l’ardire di presentarsi come tale – servito in copertina dalla straordinaria Colazione in giardino di De Nittis – ci
consegna l’esempio di uno stile, etica e idea, pensiero e contenuto, prosa e
linguaggio, rigoroso, misurato e bello, struggente nel suo mostrare ancora
possibile un modo di fare letteratura, di scrivere romanzi, che forse davvero,
oggi, nessuno più potrebbe tentare. Ma tant’è, come per Il gelo di Bilenchi, il sasso è stato lanciato: un certo tipo di
letteratura è ancora possibile. Siamo davvero sicuri di non poter averne più,
di frutti del genere?