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La grande letteratura non tradisce

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Giuda (הדוהי)

di Amos Oz
Feltrinelli, Miano, 2014

traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal

pp. 330
€ 18


La fondazione dello stato ebraico e il tradimento di Giuda: possono due temi di questa portata, dalle immani conseguenze che affondano oramai nei millenni e che si proietteranno ancora sui prossimi, stare in uno stesso libro? Non un saggio, peraltro, ma un romanzo, il terreno privilegiato della finzione più che di fatti eminentemente storici.
È possibile perché chi ha tentato l’operazione, riuscendoci a pieno con una riflessione di convincente onesta intellettuale, è Amos Oz. Concordo al cento per cento con Goffredo Fofi: il migliore scrittore israeliano di oggi e tra i più grandi viventi, con Yehoshua che si è infiacchito e con Grossman che mai li ha raggiunti.
Un accenno di trama poi partiamo dal nome scomodissimo del titolo. Siamo tra il 1959 e il 1960, la guerra di indipendenza è vicina nel tempo e nei ricordi, Suez lo è ancora di più, e c’è uno studente, Shemuel Asch, che lascia incompiuta la sua tesi sulla figura di Gesù vista dagli ebrei. Per una serie di motivi che vanno dalla crisi economica familiare a quella propria esistenziale. Leggendo casualmente un annuncio, Shemuel si ritrova ad assistere un vecchio intellettuale, Gershom Wald, il cui figlio è morto nel 1948 trucidato dagli arabi. Questo giovane, era sposato con Atalia Abrabanel, figlia a sua volta di Shaltiel Abrabanel, contrario alla nascita di Israele e per questo cacciato da ogni carica dell’Agenzia Ebraica e ostracizzato nel nascente stato dal padre della patria David Ben Gurion e dall’elite askenazita che lo affiancò. Un messa al bando totale durata fino alla morte. Atalia vive con Wald ed è una donna di 45 anni di grande fascino che porta nel libro, accanto a questa lezione di storia che mostra le difficoltà di uno stato neonato, quelle di un popolo e le ragioni dei nemici, anche un sofferto risvolto sentimentale.
Mentre si dipana la vicenda di questa vita a tre fra Shemuel, Gershom e Atalia, appare l’altro piano del romanzo: gli studi del primo sui modi in cui gli ebrei hanno conosciuto, o non conosciuto, o misconosciuto, Gesù di Nazareth, su ciò che ne è conseguito per loro e su Giuda, sulla sua grandiosa ambiguità e sull’ambiguità quindi del tradimento. Un doppio livello narrativo che ha una sua vaga somiglianza con “Il Maestro e Margherita”, dove la seconda storia che si sviluppa, ovvero il testo teatrale del Maestro, e interrompe a volte la struttura principale è incentrata sul profeta Jeshua Hanozri, Gesù.
Non è la prima volta che la figura di Giuda appare nella letteratura e nella storia in una veste nuova rispetto a quella tramandata dal cristianesimo. Jorge Luis Borges ne dà tre versioni nelle “Finzioni”, o meglio propone le tre versioni di Nils Runeberg: quella di un Giuda che consegna Gesù per forzarlo a dichiarare la sua divinità e promuovere così una grande rivolta anti-romana; quella di netta derivazione gnostica dove Giuda è l’unico a cogliere l’avvenuto abbassamento di Gesù dalla condizione divina a quella umana e, in rappresentanza di tutti gli uomini, si umilia a delatore; quella sconvolgente dove Giuda è Dio stesso. Se infatti per salvarci doveva compiere un sacrificio, tale scelta non poteva che incarnarsi nel destino, appunto, più infimo.
Il Vangelo di Giuda, prima riscoperto casualmente tre la sabbie dell’Egitto poi in anni recenti riportato all’attenzione degli studiosi, ci offre invece la versione teologica alternativa all’ortodossia e anche qui siamo in territorio gnostico. Al di là del fatto che gli stessi vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli hanno dimostrato come ogni autore del Nuovo Testamento avesse su Giuda il suo punto di vista, il Vangelo di Guida ci dice che il presunto traditore, tesoriere degli apostoli e il più fidato tra i 12, è in realtà l’iniziato a cui Gesù affida la sua rivelazione segreta. Gli altri discepoli sono immersi nell’ignoranza. Giuda non solo capisce e accoglie il vero messaggio ma ne è l’unico fedele interprete, senza il quale non ci sarebbero state crocifissione e resurrezione. Dunque cristianesimo. Nel disegno divino, Giuda è l’intermediario fra Dio e il destino di suo figlio, l’anello insostituibile che si assume consapevolmente questo ruolo fino alle estreme conseguenze.
Il Giuda di Amos Oz parte dall’idea di Shemuel Asch che Gesù sia stato il più grande ebreo di tutti i tempi. È nato ed è morto ebreo e non è mai entrato in una chiesa. Sembra banale ricordarlo ma il motivo è che le chiese non esistevano. Giuda è di Keriot, è un benestante, questo smonta di per sé la storiella dei 30 denari, esperto di burocrazia romana e membro della casta sacerdotale che gli chiede di stare a ridosso di questo predicatore della Galilea su cui si rincorrono le voci. Giuda assume il compito poi però rimane colpito dal fascino di questo predicatore, dalla dolcezza delle sue parole e dall’umanità del suo messaggio d’amore. Finisce per credere in lui «molto più di quanto lui non credesse in se stesso». In particolare Giuda pensa che Gesù sia il redentore e lo spinge a rivelarsi a Gerusalemme, durante la festa pasquale, quando vi confluiscono tutti gli ebrei, a rivelare la sua onnipotenza dinanzi al sinedrio e a Roma. Come? Facendosi crocifiggere, e lui convincerà ogni autorità a condannarlo, per poi scendere dalla croce vittorioso sulla morte. Gesù «aveva solo in mente di continuare a procedere su questa terra, a guarire i malati e saziare gli affamati e seminare nei cuori amore e compassione. Nulla di più. L’ho amato con tutto me stesso e ho creduto in lui con fede assoluta. Io l’ho amato come Dio. Lui ha preso il posto di Dio, nel mio cuore. Lui era Dio per me. E io credevo che la morte non potesse toccarlo». Invece Gesù spira dopo ore di sofferenza e lascia Giuda distrutto dal tragico epilogo. Giuda ha sbagliato a confidare ciecamente in Gesù. Se ne avvede ora, quando è stato… tradito.
E il famoso tradimento di Guida? Non tanto il bacio che non c’entra assolutamente ma, scrive Oz, «sempre che ci sia stato, avviene al momento della morte in croce di Gesù. Il momento in cui Giuda perde la fede. E insieme alla fede perde il senso della vita». E non gli resta, prima di impiccarsi, che dire, a un cane e a una stella, non agli uomini perché adesso coglie che sarebbe fiato sprecato: «non credere».
Ecco dove conduce la riflessione di Amos Oz sul tradimento partendo dal traditore per eccellenza della storia. In realtà «compaiono di tanto in tanto persone coraggiose che precorrono i tempi e per questo vengono chiamati traditori oppure pazzoidi». Charles de Gaulle, da sostenitore dell’Algeria francese a smantellatore del governo francese in Algeria, è perciò un traditore. Lo sono Abramo Lincoln che affranca gli schiavi e gli ufficiali tedeschi che cercarono di uccidere Hitler. I protagonisti del libro sono dei traditori: Shaltiel Abrabanel, che credeva nella convivenza tra ebrei e arabi, Shemuel Asch, che chiude con la sua famiglia ma non tanto per l’indifferenza mostrata durante la trama quanto perché da bambino sognava altri genitori. Chi non lo ha fatto?
Perfino chi è stato ammesso nell’olimpo ebraico ha dovuto reagire all’accusa, che dunque si materializza addosso, può rovesciarsi su chi l’ha lanciata, è liquida, si acquista e si perde senza colpa e senza merito: Geremia il profeta, Elisha Ben Abuya, uno dei grandi saggi del Talmud, addirittura i leader supremi sia del sionismo, Theodor Herzl, che di Israele, David Ben Gurion. Perché «chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento».

Marco Caneschi