di Goliarda Sapienza
prefazione e cura di Angelo Pellegrino, postfazione di Anna Toscano
La Vita felice, Milano 2013
pp. 200
€ 12,50.
prefazione e cura di Angelo Pellegrino, postfazione di Anna Toscano
La Vita felice, Milano 2013
pp. 200
€ 12,50.
Queste
poesie di Goliarda, prime prove letterarie, primi risultati della
vocazione alla scrittura, e prime testimoni di quelle che saranno le
incomprensioni e la supponenza che l’attornieranno in qualità di
scrittrice, danno ragione a Cesare Garboli, il quale, nonostante
tutta la buona volontà, non si sentiva di giudicarle, non di
promuoverle o condannarle, ma proprio di giudicarle, come se gli
avessero messo in mano un prodotto che stentava a riconoscere. La
letteratura di Goliarda, c’è poco da fare, non si fa inquadrare, è
talmente personale, talmente estranea a qualsiasi tipo di liturgia
culturale o letteraria che si rivolge solo al gusto o al sentimento
del lettore, il quale deve rinunciare ai suoi punti di riferimento,
siano storici, letterari, retorici, ideologici: la letteratura di
Goliarda sembra quasi una sfida a dire: mi piace o non piace
senz’altro aggiungere. E questo è in realtà il suo limite, un
limite che, paradossalmente, nasce dalla sua immensa forza. Goliarda
ha troppo da dire e se si mettesse pure a fare letteratura, a
riferirsi alla sua storia, alle sue strutture retoriche e
stilistiche, alla sua ideologia, se, cioè, si costruisse anche una
poetica, ne finirebbe intralciata, “disseccata”. Tutto questo non
significa che di Goliarda scrittrice non si debba o possa parlare,
significa solo che probabilmente con lei occorre riferirsi a
categorie letterarie sdrucciolevoli, quasi da costruire man mano che
si procede.
Per la maggior parte si
tratta di poesie di poche parole e queste poche parole appaiono come
il residuo dell’ondata di vita, di passione, d’emozione e di
pensiero che l’ha travolta prima di rifluire. Goliarda non è
interessata a ricostruire e rendere riconoscibile il rapporto tra
l’onda e i residui che ha lasciati. Chi conosce la sua biografia e
le altre sue opere ha una qualche possibilità di farlo e di meglio
apprezzare quei residui, ma non è indispensabile e del resto è
Goliarda stessa a non presupporlo.
Un giorno dubitai
e in piena luce
cominciai
a vedere l’albero
il pane
il coltello e la forbice
il legno
il rame.
Ha ragione Angelo Pellegrino
nell’Introduzione: qui Goliarda “racconta” un’esperienza
politica ed esistenziale, ‘dubitai dell’ideologia, dubitai dei
pensieri preconfezionati, dubitai del mio gruppo di riferimento’,
epperò non è anche, questo testo, una sorta di natura morta
pittorica, uno Chardin, poniamo?
Così come al contesto
biografico, esistenziale, storico, sociale, letterario, Goliarda
rinuncia anche all’ossatura poetica, retorica e stilistica del
dettato lirico. Non c’è ossatura metrico-strofica, non c’è
ossatura retorica, se non di tanto in tanto il ricorso all’anafora,
come a puntellare un discorso che altrimenti andrebbe spegnendosi. In
mezzo a tanto vuoto letterario – né ossatura, né calibratura
stilistica, né narrazione – Goliarda incastona luminosissime
perle, che proprio perché slacciate dalla costruzione letteraria
rifulgono ancor più sorprendenti. A proposito dell’Arte della
gioia parlai di ‘curve a gomito’, di mancati arrotondamenti
letterari, e l’analogia con queste perle è indubbia:
Non ricordo l’inizio del
discorso
ricordo che improvviso il
temporale
confuse le tue ciglia i miei
pensieri
Altra perla è la
metaforizzazione della vocazione letteraria:
Là dove il sangue s’aggruma
in nodi cartacei di pene
e trama vene di ricordi
quagliati
morde la vita
La forza della letteratura di
Goliarda sta nel fatto che l’espressione accoglie il sentimento
(termine con cui possiamo sintetizzare tutto ciò che la vita
“morde”) e su di esso si plasma. Raramente in Goliarda è
l’espressione a creare il sentimento, e mai è lo stile il
contenuto della sua letteratura: la forza della letteratura di
Goliarda non sta nel confronto con la lingua, bensì nel confronto
con il sentimento. E il limite di questa letteratura sta proprio,
perciò, nel fatto che il sentimento non sempre trova l’espressione
o che quest’ultima rimanga incongrua, inadeguata.
Se da bravo critico letterario
dovessi indicare una caratteristica stilistica riconoscibile e
ricorrente, un suo modo specifico di fare poesia, lo indicherei nella
costruzione spesso a-grammaticale della frase (un uso che ritorna
nell’incipit del romanzo maggiore). La semplice omissione di una
congiunzione o di una preposizione, lo spostamento di un nesso
comune, o il cambiamento della funzione grammaticale di una parola
creano un linguaggio tutto suo, mai a rischio, si badi,
d’incomunicabilità. “Cento cani ti mordono se cadi/e una cagna
sarai sola additata” – qui l’iperbato proposto da sola in
funzione aggettivale, anziché come ci si aspetterebbe, avverbiale. O
ancora: “come potrò resistere alla notte/che già serra i gerani
le mie mani” al posto di un comune *nelle mie mani. Ma anche
“confuse le tue ciglia i miei pensieri” (citato poco fa), dove la
semplice omissione della congiunzione crea una ‘confusione’
ancora più stretta tra ‘ciglia e pensieri’. Insomma, sul piano
stilistico Goliarda non fa sfracelli, prende quel tanto che gli serve
per dire ciò che le preme di dire.
A proposito della
comunicabilità, della leggibilità della poesia di Goliarda devo
confessarmi in disaccordo con la prefazione di Anna Toscano: non che
la poesia di Goliarda sia ermetica, è una poesia “leggibile”
sebbene non manchi di tratti enigmatici non immediatamente o
intuitivamente scioglibili, ma, a differenza degli accostamenti
proposti da Anna Toscano, non è poesia “narrativa”, né
minimalista, né può collegarsi in alcun modo al tono crepuscolare,
e non è infine una poesia che intenda esibire sapienza letteraria.
Insisto: Goliarda rimane ininquadrabile e la pur nobile linea
Saba/Bertolucci le è estranea quanto (ma io penso di più) la linea
risentita e sostenuta del primo e secondo Montale.
La poesia di Goliarda è
anche il tentativo di alzare un argine ad una socialità
superficiale, quella dei “denti scoperchiati” o del “tramestio
di luci, di bicchieri, di tovaglioli/accesi da gesti rapidi”. E
l’argine è l’epifania dell’attimo, questa sì, montaliana
(vedi Franca – pag. 98) o la profondità di sentimenti o emozioni
che quel tipo di socialità nega e deride (“denti scoperchiati”).
Sembra davvero di vederla Goliarda stupefatta e attonita di trovarsi
in una di quelle feste sinistrorse in cui i discorsi erano un
continuo e supponente darsi ragione (oggi quelle stesse festicciole
si sono spostate in televisione).
C’è in Goliarda un
femminismo del tutto diverso da quello della sua epoca (e di tutte le
epoche, ahimè). Un femminismo che riconosce alle donne molto più
d’un’arida parità politica o sociale: un femminismo della
differenza carnale e che riconosce nella femmina un valore in sé,
senza confronti (si veda la bellissima Con la gioia – pag 155).
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