Andrea Biscaro, "Il vicino"



Il vicino
Andrea Biscaro
Safarà editore
pp 194
14, 90



Fino agli ultimi due capitoli, “Il vicino”, di Andrea Biscaro, è un thriller che t’inchioda dalla prima riga.
Situazione angosciosa in crescendo: il protagonista - un pittore di qualche fama che vive in campagna con una gatta, dopo aver divorziato - riceve un film snuff dove appare protagonista.  Si tratta di un video amatoriale pornografico, in cui vengono mostrate torture, culminanti con la morte della vittima, nello specifico una donna alla quale lui, dopo il sesso, mozza la testa con una sega. Diciamo che le varie sequenze di delitti nel romanzo sono fin troppo splatter ma comunque funzionali al genere. Il pittore, che non ricorda di aver compiuto mai niente di così efferato, vive  isolato nella campagna della Tuscia, vicino ad un paese riconducibile a Pitigliano, bello quanto inquietante retaggio di antiche testimonianze etrusche. Accanto a lui è venuto ad abitare da poco uno strano personaggio, un avvocato dai modi affascinanti ma ambigui. Pagina dopo pagina la paura cresce. Biscaro è bravissimo a rendere il dilatarsi dell’orrore, la sensazione di essere sempre più in trappola, la minaccia.
Il finale non possiamo svelarlo, anche se vi sarà una specie di contrappasso, una punizione per antichi peccati. Nonostante la spiegazione razionale, intuiamo che non tutto è come sembra. C’è comunque molto inconscio, molto rimosso, dietro le vicende/allucinazioni di cui è vittima il pittore protagonista della storia.

Intravedo i loro becchi neri che grondano sangue. Io non posso muovermi. Non è soltanto la paura.
(…) I loro becchi raggiungono la mia gola, la squarciano, mi tranciano la carotide. I loro becchi invadono i miei occhi, bevono i miei bulbi. I loro becchi si fanno strada nelle mie carni, nel  mio petto, scavano nelle ossa  e nei nervi, trovano il mio cuore e lo divorano, lo beccano, lo spolpano, lo fanno scomparire nelle loro gole gracchianti.” (pag 156)
Ciò che gli capita non è un caso, ciò che prova nasce dal rimorso e dal tormento interiore. E questo, nel finale, meriterebbe di essere sviluppato meglio.
La narrazione, abbiamo detto, fila come un treno fino agli ultimi due capitoli che, a nostro avviso, creano un anticlimax troppo sbrigativo, tropo esplicito e perciò deludente, specialmente perché non tutto risulta credibile.
Lo stile è ottimo, l’insistita paratassi – al limite quasi della scrittura poetica – all’inizio spiazza, ma serve bene lo scopo di produrre un ritmo incalzante e feroce, una morsa che si stringe attorno all’io narrante fino a stritolarlo, ed è compensata da una scrittura perfetta che non lascia niente al caso. Intelligente la scelta di una narrazione onnisciente, con l’espediente del reiterato “se qualcuno potesse vedermi da fuori”, e la resa oggettiva dei dialoghi, riprodotti, non tanto come sceneggiature, quanto come vere e proprie registrazioni su nastro.
Se qualcuno potesse vedere il mio volto ora dall’esterno, vedrebbe le orbite dei miei occhi farsi buie, cave. Vedrebbe la pelle del mio viso tesa in una maschera di orrore. Qualcuno potrebbe pensare di vedere una sigaretta nella mia mano destra, stretta tra indice e medio. Qualcuno potrebbe persino intuire la forma di un bicchiere pieno nella mia mano sinistra.” (pag 11)
“Pensare”, “intuire” sono verbi che attirano la nostra attenzione sulla possibilità che ciò che viene descritto non sia vero, sia frutto di una illusione. Per contrasto, la messinscena architettata ai danni del protagonista appare più che mai reale, mentre ciò che egli compie, le sue azioni, sono messe in dubbio dai suoi stessi pensieri. Il pittore afferma dia aver smesso di bere, di fumare e di fare le altre cose sbagliate  che lo hanno portato al punto in cui è, cioè ad essere un uomo solo e braccato, ma, forse nella sua mano quel bicchiere c’è ancora, la sigaretta sta ancora fra le sue dita, il vizio è sempre dentro a rodergli il cuore come i l becco dei corvi, il male cova in attesa di un indennizzo, di una vendetta.