Prima
di avventurarmi nell’Invito alla lettura delle Vite
parallele di Plutarco credo sia giusto
preporre almeno due avvertimenti a mo’ di rete di protezione per
eventuali, non improbabili, cadute nel risaputo, nell’estemporaneo
e nel superficiale. Non sono uno specialista di letteratura
greco-romana, ma solo un ammirato lettore dilettante; e non leggo
nella lingua originale, bensì in traduzione italiana – nello
specifico: Plutarco, Vite parallele,
introduzione, traduzione e cura di Carlo Carena, Einaudi Millenni 2
voll., Torino 1958 (V edizione 1975).
Le vite parallele di Plutarco
sono una fonte inesauribile di storia antica, esposta con grande
perizia letteraria e basata su un’intima e partecipata conoscenza
del mondo ellenico e romano, del quale lo scrittore è un insigne
rappresentante e un convinto sostenitore. L’opera si compone di 22
coppie di biografie (tante almeno ne sono rimaste, oltre a quattro
vite “spaiate”) che mettono a confronto un personaggio storico
ellenico e uno romano. L’opzione biografica, rispetto a quelle
annalistiche o incentrate su una nazione o su fatti particolari, gli
permette di incrociare la storiografia (che comunque rimane
preminente) con altre componenti della cultura classica (la poesia,
il teatro, la filosofia, l’etnografia, la scienza, ecc.) che
arricchiscono l’opera e la distendono su un fondo di erudizione e
riflessione di notevolissimo spessore. Si tratta dunque di un’opera
a metà strada tra il vero storiografico e il verosimile poetico
(secondo la nota distinzione aristotelica): da questo crogiolo si
sprigiona spesso un pathos
che gli stessi poeti raramente riescono a raggiungere (e non è un
caso che nei secoli successivi siano stati i poeti ad attingere da
Plutarco – Shakespeare, tra gli altri).
La storia di Plutarco è storia aneddotica, nella quale
i fatti minuti sono il microcosmo da cui si può “spiare” il
macrocosmo, in base ad un rapporto analogico illuminato
ermeneuticamente dallo scrittore:
«Io non scrivo un’opera di storia, ma delle vite; ora, noi ritroviamo una manifestazione delle virtù e dei vizi degli uomini non soltanto nelle loro azioni più appariscenti: spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere di un individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti» (II, pag. 231).Ovviamente si è molto discusso sulla plausibilità o fondatezza storica degli accoppiamenti proposti da Plutarco, e, in effetti, alcuni appaiono discutibili o forzati, però è indubbio che almeno in alcuni altri l’opzione plutarchiana appare illuminante: Alessandro e Cesare hanno davvero cambiato il mondo, Nicia e Crasso sono davvero i due grandi sconfitti, Demetrio Poliorcete e Marco Antonio sono davvero i trastulli della Fortuna e della passione erotica, Dione siracusano e Bruto fanno davvero della filosofia una pratica di vita, e, infine, Filopemene e Tito Flaminino sono davvero i tedofori di una certa idea dell’Ellade, in relazione alla potenza romana.
Plutarco è uomo religioso, ma avverso alla
superstizione e laddove può fornire un’interpretazione razionale
la preferisce sempre a quella religiosa o mitologica, anche trattando
di personaggi per cui le fonti storiche forniscono poche certezze,
sembra sempre propendere per una spiegazione umana e non mitologica
delle loro imprese: Teseo, ad esempio, non avrebbe sconfitto una
creatura mostruosa, metà uomo e metà toro, bensì un possente
guerriero cretese e atleta fino ad allora invitto di nome Toro. Alla
stessa maniera sembra dare poco o nessun credito alla leggenda della
resurrezione di Romolo, precisando:
«gli uomini raccontano molte storie simili a quella di Romolo, storie prive di verosimiglianza, che hanno lo scopo di divinizzare la natura mortale e innalzarla al livello della divina» (I, pag. 58).Dove addirittura sembrerebbe di potervi scorgere una polemica anti-cristiana se Plutarco non scrivesse in tempi non sospetti (inizio II sec. D.C.) ed è comunque da notare come lo storico greco insista sulla radicale discontinuità tra la natura umana e quella divina.
Tutta l’opera è condotta all’insegna di un pacato
razionalismo, sorretto dalla profonda condivisione dell’idea del
giusto mezzo e del «mai troppo» (per altro, uno dei consigli dei
Sette Savi), dalla predilezione per un potere oligarchico
“temperato”, lontano sia dalla demagogia cui è soggetta la
democrazia, sia dalla tirannide (e si compiace di ricordare un arguto
motto di Solone: «quello del tiranno è un
gran bel posticino, ma manca di strada per discenderne»),
e da una religiosità sobria ma non lassa. I valori plutarchiani sono
l’ordine, la giustizia, la magnanimità, la laboriosità, la
fortezza, la temperanza, l’equilibrio nell’accogliere la fortuna
o la disfatta, ecc. ossia specificatamente i valori classici del
logos opposto al caos
(non mai, né l’uno né l’altro,
trionfanti e immobili – tanto è vero che anche il geometrico
ordine egualitario delle rètre di Licurgo verrà disfatto dalla
potenza di Sparta che quello stesso ordine aveva reso possibile).
Tutta l’opera è percorsa da un costante fremito di perfettibilità:
nessun eroe, per quanto grande e virtuoso, è esente da vizi (la
biografia plutarchiana è quanto mai distante dal panegirico –
incidentalmente si può notare quanto il classicismo dello storico
sia lontano dal Cristianesimo che nel giro di pochi secoli lo
sovrasterà: in Plutarco non si dà perfezione terrena, non si danno
santi). D’ogni eroe, statista, stratega si narrano le grandi virtù,
le imprese, le fortune e le disfatte, ma ad ognuno è assegnata anche
una serie di vizi innati o emersi dall’evolversi delle loro
esistenze. Per Plutarco diventa quasi un punto d’orgoglio o
d’onestà intellettuale non mandare nessuno esente da pecche:
Aristide, il grande politico e generale ateniese, non venne mai meno
alla sua integrità morale, ma non seppe “scrollarsi di dosso la
povertà”: anche la temperanza, la sobrietà, l’onestà stessa,
praticate con cieca ostinazione, diventano un delitto contro il
“giusto mezzo”. Ma è lo stesso Plutarco a tematizzare
espressamente la distanza dal panegirico in poche e “limpide”
parole:
«è difficile, anzi, probabilmente impossibile illustrare la vita di un personaggio che sia stata tutta immacolata e limpida» (pag. I, 390).L’unica eccezione completa a questa impostazione è rappresentata dalla biografia di Dione di Siracusa (messo in parallelo con Bruto il cesaricida, anche lui quasi del tutto esente da macchie). Dione si batté allo stremo non tanto contro la tirannide, bensì contro gli eccessi personalistici dei due Dionisi (il Vecchio e il Giovane) fondandosi sulla profonda influenza che ebbe su di lui l’insegnamento di Platone, che infatti cercò e ottenne di coinvolgere nel governo di Siracusa, con scarsi risultati in verità. Ed è proprio il tentativo onesto e convinto di mettere in pratica la filosofia politica e morale di Platone che induce Plutarco, discepolo dell’Accademia e seguace di Platone, a mandare assolto da ogni peccato il suo eroe (a meno che il peccato non sia appunto aver miseramente mancato l’obiettivo politico e morale). In questa stessa prospettiva di personaggi mai del tutto immuni da azioni disonorevoli, un caso particolarmente significativo e quello dell’eroe ellenico Timoleonte, la cui vita è “immacolata e limpida” ma in un certo qual modo messa sotto scacco ab origine: a seconda di come gli altri vorranno vederlo, Timoleonte sarà considerato un tirannicida o un fratricida. Il giudizio sul gesto drammatico d’aver ucciso il fratello per salvare la città dalla tirannide non è fissato per sempre in base al valore del gesto in quel momento o del sentimento che l’ha dettato. Il giudizio sarà demandato alle azioni successive dello stesso Timoleonte e agli effetti “esterni” che produrrà. Plutarco è uno dei massimi campioni del classicismo anche perché esclude dal suo orizzonte speculativo e valoriale i sentimenti e la spiritualità individuale (che saranno appannaggio dell’incipiente cristianesimo): l’uomo di Plutarco è l’uomo politico, è l’uomo della polis, è l’uomo che si giudica dagli effetti prodotti sulla comunità, è l’uomo dell’azione, non dell’intenzione. L’idea di virtù (o di vizio) che si ricava dall’opera plutarchiana ha carattere aristotelico: la virtù non è un’idea preesistente al suo concreto dispiegarsi, bensì è l’effetto di un determinato comportamento empirico ed è tale (o non è) solo in base ad una situazione data. Più che ad una idealistica virtù, Plutarco sembra sempre riferirsi ad una pratica virtuosa (o viziosa) che tiene conto sia della contingenza storica sia delle concrete possibilità di ognuno dei suoi eroi, nonché del suo carattere (al punto che anche una virtù può ribaltarsi in vizio, quando non tiene conto di quanto la circonda). L’atteggiamento basilare di Plutarco riguardo agli eroi di cui si occupa è magnanimo ed equanime. Non infierisce quando si tratta di denunciarne i vizi e non si esalta quando si tratta di lodarne le virtù. Anche nella Vita di Giulio Cesare mantiene lo stesso atteggiamento moderatamente distaccato ed politicamente equidistante, ma è curioso osservare che, fatta salva la parte dell’opera che lo riguarda direttamente, ogni volta che Plutarco si trova a coinvolgere Giulio Cesare raccontando altre vite assume un atteggiamento polemico e tutt’altro che accomodante. Tanto che si erge a difensore della memoria di Catone l’Uticense attaccato duramente dallo stesso Cesare in un suo scritto: secondo Cesare, Catone era così gretto e taccagno che dopo aver reso gli onori funebri al fratello rivestendolo d’oro e porpora, fece setacciare la cenere del rogo per recuperarne il prezioso metallo, e Plutarco insorge scrivendo: «fino a questo punto lo scrittore [Cesare] confidò che nessuno avrebbe controllato e analizzato ciò che usciva dalla sua penna, come ciò che eseguiva con la sua spada» (II, 443). Fornendo così anche un saggio di metodo storiografico: collazione delle fonti e storicizzazione delle stesse (Cesare è una fonte infida su Catone perché politicamente coinvolto).
Paolo Mantioni
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