Le ho mai raccontato del vento del Nord
di Daniel Glattauer
Feltrinelli, 2010
Traduzione di Leonella Basiglini
pp. 256
€ 15,00
Più che un vento, una tempesta. Meglio ancora, un ciclone: come la tromba d'aria che trasporta Dorothy nel Regno di Oz con tutta la casa, Le ho mai raccontato del vento del Nord è il romanzo che, nel 2006, ha proiettato l'austriaco Daniel Glattauer in quell'Olimpo di Eletti dorato e ambiguo chiamato "Classifica dei Bestseller". Ed è anche il libro che, nella mia personale e assai irrilevante esperienza di lettore, mi ha portato ad affrontare per l'ultima di molte ultime volte a venire la trita questione del recensire "libri brutti". Perdonate la superficialità terminologica: se frequentate un po' le discussioni librarie sui social, saprete che i libri oggidì si dividono in "belli" e "brutti". E che parlare di "libri belli" riveste, agli occhi di chi ne scrive e legge, i contorni mistici di una missione social-spirituale di interesse collettivo, mentre occuparsi di "libri brutti" non è nient'altro che una sterile perdita di tempo con cui biechi individui poveri di impegni e ricchi di rancore (altresì noti come "rosiconi") si sforzano di sopperire alla vacuità della propria esistenza terrena sminuendo i successi altrui.
Individui come me.
Individui come me.
Ogni volta provo a dirmi che scrivere anche di "libri brutti" serve non a sconsigliarne la lettura ("consigliare" e "sconsigliare" sono compiti dei pubblicitari e dei confessori, non dei recensori), ma a capire perché il libro che ho appena finito di leggere funzioni così male da lasciarmi in bocca, una volta terminato, il sapore amaro del pentimento e la consapevolezza bruciante del tempo perso. E anche a tentare di capire (ma qui il gioco si fa duro) perché un libro che funziona così male riscuota comunque un successo di pubblico pressoché mondiale. Provo a convincermi, insomma, che capire perché un "libro brutto" sia brutto aiuti anche a capire perché invece un "libro bello" sia bello, e che quindi le energie spese nell'analisi non siano mai sprecate. Ma in fondo al mio cuore so che questa è la scusa di cui ci ammantiamo tutti noi rosiconi; perciò mi occupo di "libri brutti" meno che posso. Giusto in casi estremi, situazioni limite. Come appunto il libro di Glattauer.
La formula narrativa è semplice, ma ben trovata. Le vite di due sconosciuti entrano in contatto improvviso e casuale quando lei (Emmi Rothner), volendo disdire l'abbonamento alla rivista "Like", per l'intrusione di una lettera galeotta nell'indirizzo del destinatario si sbaglia e manda un'e-mail a lui (Leo Leike). Dopo le prime battutine sull'equivoco, i due avviano una corrispondenza fittissima intessuta di messaggi via via più ardenti, intimi e coinvolti, che tracciano la direzione di un innamoramento divorante, ma sempre in equilibrio tra desiderio e paura. Sì, perché dietro il velo della parola scritta tutto è romantico e fascinoso, ma chi può dire cosa succederebbe alla prova concreta della realtà di tutti i giorni?
Una domanda che Leo e Emmi si pongono spesso, e di cui noi possiamo seguire i ciclotimici andirivieni "in presa diretta": il breve romanzo di Glattauer è composto integralmente dalla sequenza delle mail scambiate dai due, dalla prima all'ultima, scandite per giorni e intervalli di risposta. E proprio nella gestione dei tempi di scrittura Glattauer se la cava più che bene, ritmando le discussioni in base al tono e all'atmosfera e alternando scambi frenetici fatti di domande secche e risposte immediate ("40 secondi dopo", "20 secondi dopo") ad altri più rilassati, in cui Leo e Emmi scrivono di più, prendendosi anche più tempo per leggersi. Una struttura dialogica che giustifica l'enorme successo del romanzo anche nei suoi inevitabili adattamenti in forma di radiodramma, opera teatrale e audiolibro.
Così abbiamo già due ingredienti vincenti: un'idea di base suggestiva (l'incontro casuale in rete) e una struttura narrativa abbastanza originale (il racconto per e-mail). Ora non resta che riempirlo, un contenitore così promettente. E con cosa lo riempie, Glattauer? Con un altro elemento di sicuro impatto: i due personaggi archetipici dell'Uomo Affascinante ma Fragile e della Donna Intrigante ma Problematica. Leo Leike e Emmi Rothner sono senz'ombra di dubbio i due figuri più intollerabili con cui io mi sia mai dovuto confrontare in un romanzo, perché Glattauer li arma di tutte le caratteristiche necessarie ai personaggi precotti di una storia d'amore tormentato: situazioni di partenza difficili e delicate, sveltezza di parola (guarda caso Leo, di mestiere, è uno psicolinguista specializzato nello studio del linguaggio delle e-mail come veicolo di emozioni), disponibilità al gioco e allo stuzzicamento erotico, fascino intrinseco, romanticismo da cestone del supermercato ("Leo, me lo dica: Come bacia?" - "Bacio come scrivo"), passionalità di facciata e insicurezza di fondo.
Ma soprattutto paura di vivere.
Le ho mai raccontato del vento del Nord ci conferma che, nel campo degli amori impossibili, i feuilleton hanno fatto il loro tempo. Ma non tanto per raggiunti limiti di età, quanto perché le cause concrete che là ostacolavano il lieto fine (signorotti prepotenti, prelati lussuriosi, nobiltà corrotta, famiglie separate da guerre secolari, differenze di classe sociale) non possono più reggere il confronto con la barriera ben più insormontabile opposta alla felicità umana dall'accidiosa e paralizzante paura di vivere propria dell'era digitale. Nel romanzo di Glattauer, questa paura sta all'origine stessa di tutto: se Leo e Emmi non avessero così tanta paura di vivere, noi non potremmo nemmeno conoscere la loro storia. I due continuano a scriversi appunto perché hanno un terrore folle, ognuno per le sue ragioni, di incontrarsi di persona. Al punto che, tra i vari assurdi escamotage che escogitano per avvicinarsi restando lontani, arrivano persino al punto di registrarsi un messaggio in segreteria per ascoltare le rispettive voci in differita.
Prendiamo Emmi, per esempio: dato che Leo non si decide a volerla incontrare in carne e ossa, lei subito lo provoca rinfacciandogli le sue debolezze:
Leo, mi ascolti: credo che dovremmo darci un taglio. Comincio a dipendere da lei. Non posso stare ad aspettare un giorno intero l'e-mail di un uomo che mi gira le spalle quando mi incontra, che non vuole conoscermi, che vuole solo le mie e-mail, che usa le mie parole per costruirsi una creatura tutta sua, perché le donne che incontra nella realtà lo fanno soffrire fin oltre, presumo, la soglia del dolore.
E in effetti non ha torto: Leo è davvero angosciato all'idea di trasferire il rapporto con Emmi dal virtuale al reale. Teme il disincanto, non vuole rischiare di scoprire che non c'è nessun tesoro alla fine dell'arcobaleno:
Ci avviamo a un grande disinganno. Non possiamo vivere quello che scriviamo. Non possiamo sostituire le tante immagini con cui ognuno di noi raffigura l'altro. Io resterò deluso se lei non sarà all'altezza della Emmi che conosco. E non sarà all'altezza! Lei si deprimerà se non sarò all'altezza del Leo che conosce. E non sarò all'altezza! [...] Emmi, conserveremo per sempre l'immagine riflessa dell'altro: smitizzata, svelata, sciolta dall'incantesimo, delusa, sgualcita. Non sapremo più cosa scriverci. Non sapremo più perché dovremmo continuare a scriverci.
Certo non si può dire che Leo faccia onore alla fierezza del suo nome: un personaggio così scialbo e irrisolto che al confronto Charles Bovary spicca come l'eroe di un film action. Non che Emmi sia da meno: prigioniera di un matrimonio tutt'altro che felice con un'altra parodia di uomo, anche lei esita a barattare la parola scritta con il contatto diretto. Perché è di parole che Emmi ha sete, rassicuranti, avvolgenti, inerti parole: quelle di Leo, che la inebriano di una passione virtuale, e le sue proprie, che le consentono di esprimere in pieno da dietro uno schermo la donna forte e spregiudicata che ritiene (a torto) di nascondere dentro di sé:
... è da tempo che non avevo uno scambio di sentimenti così intenso come ora il nostro. La maggior parte delle volte mi stupisco io stessa che sia possibile. Nelle e-mail che le scrivo posso essere la vera Emmi, che altrimenti non sono.
Due anime gemelle. Che, proprio grazie alla loro debolezza psichica e all'insicurezza relazionale che ne deriva, tengono in piedi da soli tutto il romanzo. Sì, perché nel libro di Glattauer non c'è nient'altro: non c'è una storia, non c'è quasi nessun tipo di evoluzione, non succede sostanzialmente nulla. Parole che parlano a se stesse, per poi risolversi in nulla. Ed è esattamente questo, credo, il segreto del suo successo. Maschietti o femminucce che siano (anche se scommetterei su una quasi assoluta prevalenza di quote rosa), gli amanti degli amori impossibili hanno decretato il successo di un romanzo in cui evidentemente hanno trovato la piena soddisfazione della propria idea di amore: la potenza di un desiderio fortissimo di vita, felicità e libertà, vanificata proprio sul più bello dalla sostanziale impossibilità di realizzarlo. Il tutto espresso in un libretto di valore letterario pressoché nullo, che non dice niente di nuovo o interessante o anche solo minimamente coinvolgente, ma lo dice così bene da farsi apprezzare da milioni di lettori in tutto il mondo.
Il che ci riporta all'interrogativo iniziale, e cioè: ha senso dedicare tutto questo tempo all'analisi di un libretto tutto sommato piuttosto insulso come questo di Glattauer, che nella migliore delle ipotesi potrà al massimo servire come libro da treno, o come antidoto contro l'insonnia? Io credo di sì. A modo suo, Le ho mai raccontato del vento del Nord è un libro molto istruttivo: uno di quei libri che ci dicono più cose sul suo pubblico che suoi suoi eventuali meriti intrinseci.
In fondo, il successo di un libro è sancito anche dalla sua capacità di andare incontro alle esigenze intime del pubblico che lo accoglie, e il romanzetto di Glattauer appartiene proprio a quel tipo di letteratura che più di ogni altra ama correre incontro al suo pubblico. Quella letteratura che, invece di scuoterci e prenderci a schiaffi, trova più utile blandire le nostre più pigre tendenze autodistruttive, cavalcandole furbescamente, arruffianandoci e dandoci pacche sulle spalle come a dire: "Lo vedi? Io sono esattamente come te". Una letteratura rassicurante e assolutoria, che non ci giudicherà mai né mai ci chiederà di cambiare le nostre vite o prospettive, prendendo il coraggio a due mani e mettendoci in gioco per quello che siamo realmente. Una letteratura che, di fronte al rischio della dura battaglia della rivoluzione di sé, preferisce nascondersi dietro il protettivo schermo di un computer, nel caldo cantuccio di una comunicazione virtuale.
Che poi è proprio quello che la letteratura non dovrebbe mai fare.
Luca Pantarotto
(@HoldenCompany)