V. M. 18
di Isabella Santacroce,
Fazi 2007
di Isabella Santacroce,
Fazi 2007
pp. 491
€ 17.50
A
fine lettura non si può fare a meno di apprezzare e lodare
l’indubbia ricchezza stilistica e immaginativa del romanzo, qualità
letterarie che, di solito, nei casi non comuni in cui appaiono con
tale dovizia, risolvono di per sé in senso positivo la valutazione
del lettore. Insomma, mi verrebbe da dire che V.M.
18 di
Isabella Santacroce sarebbe
un bel, fors’anche ottimo, romanzo se…Per dare un senso al se
è necessario saltare direttamente alle conclusioni, tornado magari
poi indietro per soffermarsi sui dettagli e sulle puntuali
rilevazioni critiche. La mia conclusione che rimane in ogni caso
problematica e che non aspira a mettere il cappello sul lavoro della
Santacroce è, al momento, questa: al di là della prolungata
prodezza stilistica, non esente da limiti, e della lussureggiante
rappresentazione immaginifica, nella quale l’orrido e il grazioso,
il grottesco e il sublime si concedono a piene mani, al di là di
tutto questo, dicevo, la sensazione finale rimane quella di una
delusione, di qualcosa che manca, come se il romanzo non riesca a
scavalcare il muro, tanto elaboratamente costruito dall’autrice,
posto tra sé e il mondo, come se non riesca a trovar la sua funzione
nel mondo del lettore.
La calcolata autoreferenzialità, come detto, è esplicitamente tematizzata: “fuori non v’era nulla, fuori v’era il deserto, lo spazio che mi consentiva d’esistere, e quello spazio che mi consentiva d’esistere poteva essere figurato come una scatola enorme, abitata da creature che divenivano le mie marionette, e che solo per il summenzionato motivo eran degne di vivere” (pag. 489), esplicitazione non casualmente riportata nelle ultimissime pagine del romanzo. È ovvio che non può trattarsi di esclusioni assolute, di assoluta autoreferenzialità, ché altrimenti il romanzo stesso, il “gioco” che esso gioca, ossia la letteratura, non esisterebbe nemmeno, però rimane come l’impressione di un ronzare a vuoto, di una bolla iridescente distante dal mondo, al quale aggiunge (o toglie) molto meno di quanto la valentia stilistica e fantasmagorica potrebbero fare. Come se detta valentia fosse una virtualità cui manca lo scatto di reni, il tuffo nel mondo empirico della scrittrice e dei lettori. È un romanzo che si ostina a parlarci di Desdemona-personaggio, della finzione romanzesca, dell’acribia descrittiva, dell’invenzione stilistico-narrativa, senza però dare indicazioni di nessun tipo sulle loro funzioni nel mondo empirico (o sulla loro assenza di funzione e sull’eventuale rammarico o celebrazione di tale assenza).
La calcolata autoreferenzialità, come detto, è esplicitamente tematizzata: “fuori non v’era nulla, fuori v’era il deserto, lo spazio che mi consentiva d’esistere, e quello spazio che mi consentiva d’esistere poteva essere figurato come una scatola enorme, abitata da creature che divenivano le mie marionette, e che solo per il summenzionato motivo eran degne di vivere” (pag. 489), esplicitazione non casualmente riportata nelle ultimissime pagine del romanzo. È ovvio che non può trattarsi di esclusioni assolute, di assoluta autoreferenzialità, ché altrimenti il romanzo stesso, il “gioco” che esso gioca, ossia la letteratura, non esisterebbe nemmeno, però rimane come l’impressione di un ronzare a vuoto, di una bolla iridescente distante dal mondo, al quale aggiunge (o toglie) molto meno di quanto la valentia stilistica e fantasmagorica potrebbero fare. Come se detta valentia fosse una virtualità cui manca lo scatto di reni, il tuffo nel mondo empirico della scrittrice e dei lettori. È un romanzo che si ostina a parlarci di Desdemona-personaggio, della finzione romanzesca, dell’acribia descrittiva, dell’invenzione stilistico-narrativa, senza però dare indicazioni di nessun tipo sulle loro funzioni nel mondo empirico (o sulla loro assenza di funzione e sull’eventuale rammarico o celebrazione di tale assenza).
Il
sadismo della Santacroce che si riallaccia direttamente al suo
profeta, De Sade, può approfondire fino al misticismo il suo aspetto
fantasmagorico, e può fare a meno della filosofia, che almeno fino
alle 120
giornate,
prima cioè del trionfo delirante della completa separatezza dal
mondo e dal Tempo, ancora sopravviveva nello stesso Sade, proprio
perché ha dissolto il Mondo e il Tempo. È, in un certo senso, il
percorso che segna il passaggio dalla nevrosi alla psicosi (nella sua
rappresentazione letteraria e nel suo sostrato culturale, s’intende,
ché di Sade o Santacroce non sto diagnosticando una reale patologia
psichica).
Quelli che seguono sono
rilievi critici specifici che possono andare tutti nella direzione
della conclusione che ho anticipato, che, però, non mancheranno di
aspetti contraddittori, irrisolti rispetto a quella conclusione, anzi
ne vorrebbero ampliare la problematicità, la possibilità che sia il
lettore empirico Paolo Mantioni a non aver colto affondo il senso del
romanzo.
Lo stile del romanzo è tutto
incentrato sulla “leggiadria”, sul Rococò, sul finto settecento,
il registro parodico è del tutto evidente, i vari livelli stilistici
e lessicali cui attinge (dal triviale al raffinato, dal gergale allo
scientifico, ecc.) sono amalgamati in un impasto omogeneo, molto
originale e ricercato. L’ostentata raffinatezza retorica (sintassi
e lessico) indirizzata alla leggiadria, filtra la grevità e gravità
delle situazioni rappresentate (grevità e gravità che va riferita
ad un comune senso morale che è, appunto, il bersaglio contro cui si
scaglia la furia iconoclasta del personaggio narrante). In realtà,
più in generale, tutto il romanzo si regge su una serie di contrasti
giustapposti: stile e materia narrativa, mondo del romanzo e mondo
esterno, Notte e Giorno, Bene e Male, Dio e Satana. Ciò che manca è
lo svolgimento dialettico, la reciproca influenza. Ogni elemento del
contrasto è solamente giustapposto al suo contrario, non v’è
conciliazione, penetrazione dell’uno nell’altro, il contrasto non
cambia, non svolge gli elementi che lo compongono (e va da sé che in
questo conteso la mancanza del Tempo – di cui dirò dopo – è
particolarmente significativa). Non aggiunge consapevolezza né sugli
elementi che sono giustapposti né sul significato stesso del
contrasto. Potrebbe però trattarsi di una consapevolezza negativa,
ossia l’immobile fissità degli elementi potrebbe indurre a
guardarli in modo diverso, da un’altra prospettiva, che, però, il
lettore empirico Paolo Mantioni non ha trovato, e che, comunque, non
mi pare sia mai esplicitata: manca, o non ho trovato, il punto di
fuga, la faglia che apra il romanzo, che faccia uscire dalla pure e
semplice giustapposizione.
Come accennato, nel mondo
creato e rappresentato dal romanzo non c’è svolgimento temporale,
il Tempo non porta nessuna variazione ai personaggi e alle situazioni
immaginate. L’indeterminatezza storico-geografica è costantemente
rafforzata: sul piano lessicale dalla disinvolta presenza di termini
e comportamenti d’altri tempi (viaggi in carrozza, suonare un
fortepiano, ecc.) giustapposti a termini e comportamenti
contemporanei (dildo, conoscenze scientifiche, ecc.); sul piano
strutturale dalla abnorme ripetizione di intere frasi e descrizioni
che riguardano personaggi e ambienti tale da creare un effetto
incantatorio, come si trattasse di nenie o spergiuri (che, infatti,
sono anche espliciti, specie nei momenti di maggior efferatezza delle
Spietate Ninfette), che spingono alla fuoriuscita da ogni
determinazione storico-geografica contingente (ripetere senza
variazioni significa trovarsi sempre
nello stesso spazio-tempo). Il mondo creato dal romanzo non è
“contaminato” dal Tempo. Ma per tener fede alla struttura
giustappositiva dell’intera costruzione, all’interno di esso le
rilevazioni cronologiche, relative al “tempo dell’orologio”, il
tempo ciclico, quello che indefettibilmente tornerà identico a se
stesso, assumono un’evidenza quasi maniacale. Un esempio
paradigmatico dell’assoluto rifiuto del Tempo è quello relativo
alla gravidanza di una delle educande. Cosa c’è di più temporale
di un feto che cresce in un ventre e che porterà variazioni nella
persona e nell’ambiente in cui verrà alla luce? Infatti questa
gravidanza, per altro non a caso “contratta” fuori dal mondo
chiuso del “Collegio delle fanciulle”, è brutalmente interrotta
e il feto viene dato in pasto al cane, con relativa nenia e leggenda
“fuori dal Tempo”.
L’assoluta preminenza del
punto di vista del personaggio narrante è segnata anche dalla totale
assenza di dialoghi – le pochissime battute in stile diretto
riportate dal romanzo sono della stessa Desdemona, che le pronuncia o
immagina di pronunciarle senza il minimo contraddittorio – e anche
quelle pochissime occasioni in cui potrebbe affacciarsi un punto di
vista diverso – ad esempio le “genitoriali missive” – sono
rielaborate e riportate da lei (che, per altro, le definisce
pressoché illeggibili, sul piano calligrafico, oltreché sul piano
contenutistico).
Il mondo rappresentato nelle
“genitoriali missive” riproduce in piccolo la stessa chiusura al
mondo esterno rappresentata in grande dal romanzo: come se da una
stanza opprimente si cercasse una via d’uscita attraverso un
corridoio che si rivelerà cieco. Probabilmente, anzi, il mondo
“genitoriale” è ancora più obbrobrioso di quello del
“Collegio”, perché non consapevole dei suoi stessi obbrobri e
l’anaffettività, la vanità, l’ipocrisia, la superbia, la
malvagità vi regnano come fossero araldi del Bene (e quello della
consapevolezza critica del Male travestito da Bene potrebbe essere
una delle vie di fuga cui accennavo prima, sebbene mi sembri un po’
poco per un romanzo così ricco).
Forse la via di fuga ultima
sta nell’assoluta “indialetticità” fra contrari: fra Bene e
Male, alla fine. E fors’anche tra letteratura e mondo, ma se si può
pensare che la letteratura non incida sul mondo, non si può nemmeno
sfuggire ad un’evidenza ineludibile: il mondo incide sulla
letteratura. Ed è un limite, letterario e speculativo, non prenderne
atto.
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