di James Ellroy
Mondadori, 2004
Io
credo che esistano buoni o cattivi libri indipendentemente dalla
qualità del genere cui implicitamente o esplicitamente si richiamano
o vengono inclusi. Semmai il genere letterario, in questo caso
romanzesco, può essere utile per indagare come un singolo libro
entra in relazione con esso: se ne segue pedissequamente i dettami,
se cerca di riformarlo, se ne fa una parodia, ecc. Oppure la nozione
di genere può essere utile in sede storiografica per indicare
tendenze, linee direttive, tracciati di divergenza o convergenza di
questo e quell’autore. Quando, però, si tratta di guardare ad un
singolo testo, la definizione di genere mi pare scarsamente operativa
e preferisco leggerlo in base a categorie letterarie più generali,
ivi compresa, va da sé, la nozione di genere, senza, però,
limitarsi ad essa.
Dalia
nera è un
buon romanzo poliziesco, con sfumature noir,
non di puro intrattenimento, ma nemmeno particolarmente succulento da
punto di vista letterario.
Ellroy
costruisce una storia fondata sulla precisa determinazione di un
mondo, che il romanzo stesso definisce, per bocca di uno dei
personaggi, un mondo di “poliziotti e pistole”: compatto,
asfittico, cinico violento, bullesco, stupido, corrotto, senza
distinzione tra buoni e cattivi, anzi dove i “buoni sono i
cattivi”, ci si dice già nel prologo. Così tutta la vicenda
legata all’omicidio della Dalia nera, si riverbera e smaschera le
gravi magagne non solo degli ambienti e dei personaggi dove ci
aspetteremo di trovarle (il mondo dei diseredati, della
prostituzione, dell’alcolismo, ecc), ma degli ambienti e personaggi
che dovrebbero rappresentare la parte sana della società (la
polizia, il giornalismo, l’imprenditoria, la politica, la famiglia,
ecc.). Grazie a un ritmo serrato, ai colpi di scena, alle descrizioni
crude senza cedimenti al sentimentalismo o al moralismo, Ellroy
trascina e mantiene il lettore in un romanzo “incatenato” al quel
mondo, coerente e plausibile e non indica una via d’uscita, una
“morale della storia” (per carità, nessuna richiesta di
consolazione), un punto d’appoggio che sia esterno, che dia in
fondo conto dell’esistenza empirica dell’”altro mondo”,
quello dove i buoni e i cattivi convivono, quello dove vivono
concretamente l’autore, il lettore e tutti gli altri. Non ne
mancano parziali o blande rappresentazioni, specie nel finale, che,
però, finiscono per ribadire l’irriconciliabile scissione.
Ovviamente il giudizio letterario sull’opera dev’essere
indipendente da questa scelta artistica dello scrittore, questa
specie di pessimismo cinico e assoluto può essere considerato un
legittimo orizzonte ideologico ed esistenziale: sennonché, nel caso
specifico, il romanzo intitolato Dalia
nera, esso
assume un carattere esterno, predeterminato rispetto alle effettive
necessità artistiche. La compattezza cinica del mondo di “poliziotti
e pistole” è qua e là percorsa da fremiti, da feritoie che
sembrano ancorarlo all’altro mondo: molti di questi si riveleranno
falsi, quegli “intenerimenti” sono ulteriori finzioni e ulteriori
conferme di cinismo. Di tutta la serie sono una specie rimane tale:
quella relativa ai bambini. Ogni volta che quel mondo si sta aprendo,
sta accettando l’idea che ne esiste anche un altro, più vasto e
meno compatto, compaiono in scena i bambini. Quattro esempi: il
coinvolgimento personale dell’investigatore Lee per l’omicidio
della Dalia nera è giustificato, assieme ad altri motivi, dal fatto
che nella ragazza orrendamente seviziata il poliziotto rivive una sua
esperienza di perdita: la scomparsa senza ritrovamento della
sorellina bambina quando lui era adolescente, tutti gli altri motivi
del suo particolare interesse cadranno e si riveleranno finzioni,
solo questo rimarrà intatto; durante un arresto, l’investigatore
protagonista e voce narrante del romanzo, è costretto a separare il
padre lestofante dal figlio i cui “urli non sono coperti dalle
sirene”, esempio tanto più significativo perché rappresenta anche
uno dei rarissimi casi in cui l’autore sfoggia una qualche gratuità
metaforica; il personaggio narrante, così pesantemente implicato in
quel mondo, quando chiede in sposa la persona che ama, lo fa in
presenza di bambini, che anzi deliziosamente commentano in
filastrocca “La signorina Lake ha un fidanzato” (pag. 275);
infine, sarà proprio un nascituro a permettere e favorire la
fuoriuscita da quel mondo del personaggio narrante e con esso del
romanzo e del lettore implicito (in un finale, invero, un po’
banale). Insomma, un’altra scissione: il mondo con
bambini e il mondo senza.
Si sa, i romanzi di Ellroy sono romanzi per adulti, senza o con poco
pelo sullo stomaco. Però, verrebbe da obiettare, i bambini crescono,
compiono 15 anni (vedremo che questo è il limite ellroiano per
diventare adulti), fanno il salto nel mondo brutto. Ma il salto è un
processo, un’evoluzione non meccanica ed è, soprattutto,
ineludibile: Ellroy ha artisticamente mancato l’ineludibilità non
meccanicistica del passaggio, non l’ha affrontata. Per spiegarmi
meglio devo far riferimento ad una realtà extraletteraria
(universalmente nota, quindi nessun voyeurismo
più o meno
psicoanalitico). Ellroy, all’età di 10 anni ha perduto la madre in
un fatto di cronaca nera rimasto insoluto, solo pochi giorni prima lo
stesso Ellroy bambino le aveva augurato in cuor suo la morte a
seguito di un “energico” rimprovero della stessa. Va da sé, che
il pensiero magico dell’adolescente ha messo in connessione i due
fatti e si è autocolpevolizzato (con una serie di conseguenze
biografiche che esulano, però, dal discorso che sto facendo). In
Dalia nera
il processo di autocolpevolizzazione autobiografica trova la sua
trasfigurazione letteraria: l’investigatore Lee all’età di 15
anni ha trascurato di proteggere la sorellina perché ne era
invidioso e non ne ha sventato la drammatica fine. In verità, vista
la densità drammatica dell’episodio autobiografico, la sua
trasfigurazione letteraria appare un po’ meccanica, rigida, fredda,
studiata a tavolino (raffrenare la penna, tenerla lontana dal
sentimentalismo piagnucoloso, non significa ipso
facto
congelarla). A rendere un po’ incongruente quella trasfigurazione
c’è anche la differenza d’età: Ellroy aveva 10 anni, Lee ne ha
15 (e aveva già fatto il salto nel mondo “brutto” – trascura
la sorellina per scopare ed ubriacarsi assieme a una sciacquetta che
la dà a tutti (citazione ad
sensum);
anche un’altra battuta del testo determina nei 15 anni il passaggio
da mondo “bello” a quello “brutto”. Alla stessa maniera la,
anzi, le scissioni di cui ho parlato sono in realtà incongrue,
meccaniche, rigide, studiate a tavolino, artisticamente asfittiche. A
ben guardare, anche i sogni di Bucky, il personaggio narrante, sono
poco “onirici”, troppo meccanicamente legati alle situazioni
diurne e contingenti.
Oltre
alla meccanica e irrisolta “separazione dei mondi”, la polpa
letteraria di questo romanzo non è succulenta anche per l’innegabile
assoggettamento della scrittura di Ellroy all’espressione di tipo
cinematografico. È un topos
cinematografico ormai abusato quello dell’esigenza dell’”opinione
pubblica” americana di una rapida soluzione dei delitti più
efferati, esigenza che i mass-media
e i politicanti cavalcano a loro profitto. (Per altro, non so quanto
questo topos
sia storicamente accreditato, in ogni caso la rappresentazione
letteraria e cinematografica del popolo bue mi sembra sempre un po’
superficiale, così come quella dei “vergatori”, giornalisti e
politici, ma forse io sono troppo ingenuo e le cose vanno veramente
così). Sono frequentissime le situazioni in cui il personaggio
narrante interviene in una scena già predisposta, quasi si trattasse
di un set che aspetti il fatidico “motore!” per animarsi. Tutto
ciò che è fuori dall’immaginazione visiva ha scarsissima
rappresentazione: pensieri, metafore, stile sono costantemente
incalzati da un ritmo che li rende superflui, inadatti alla
rappresentazione. Ma ancor più e intrinsecamente cinematografica è
la zoomata su dettagli dall’alto valore semantico: come le
macchioline di sangue sui polsini e il colletto della camicia, dopo
un interrogatorio, di un poliziotto.
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