Quando penso a mia moglie, penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio: a cosa pensi? Come ti senti? Che cosa ci siamo fatti?
La sequenza iniziale ci mostra una mano maschile che accarezza una testa bionda. La voce suadente dell'uomo che pronuncia fuori campo queste frasi. E lo sguardo, indecifrabile, della donna che si volta a guardarlo negli occhi.
La duplicità e l'apparenza sovvertita sono la cifra iniziale del film Gone girl - L'amore bugiardo, di David Fincher, uscito in Italia nel dicembre 2014. La tenerezza apparente di un momento di intimità in una coppia, contraddetta da espressioni forti come “aprirle quel cranio” e “srotolarle il cervello”. E l'angoscia delle domande, a cui il volto perfetto e inespressivo non risponde.
E andando avanti la situazione si complica, il racconto dell'apparentemente perfetta felicità della coppia di bellissimi e sorridenti Amy e Nick si incrina col montaggio parallelo della scomparsa di lei e della pesante accusa di uxoricidio.
L'amore ai tempi del femminicidio morbosamente esplorato dai vampiri mediatici, la spettacolarizzazione del dolore di una famiglia devastata dal gioco delle accuse che scopre i segreti e le bugie di un matrimonio.Un gioco dalle mille complesse sfaccettature, che sembra partire in svantaggio per Nick -incapace di sostenere credibilmente la parte del marito afflitto, e quindi giudicato colpevole dal tribunale popolare della tv del dolore- e si arricchisce, giorno dopo giorno, di nuove rivelazioni.Fino ad arrivare all'unica verità che davvero conta:
C'è una differenza fra amare davvero una persona e amare l'idea di quella persona.
E il discorso sull'apparire e sull'essere è veramente il filo conduttore della trama, che detona laddove questa dicotomia si interfaccia con l'amore, il principe dei sentimenti imperfetti, racchiuso nell'imperfettissima forma del matrimonio.
Se - come cantava Fossati - «la costruzione di un amore spezza le vene delle mani», il mantenimento di un matrimonio porta dritto alla follia. Tanto più quando si parla di una donna, alla quale generalmente è richiesto uno sforzo di perfezione maggiore, e quella donna è Amy Elliott Dunne, che i genitori hanno condannato all'eterno confronto con “Amazing Amy”, il personaggio da lei ispirato che riesce sempre dove lei ha fallito. Se spietata è la dissezione anatomica di un matrimonio, agghiacciante è la considerazione sullo stato di stallo di una relazione a somma zero: una coppia che in apparenza è perfettamente assortita trova il modo di nutrirsi di una lucida chimica dell'odio per rimanere a galla e continuare a stare insieme.
La sceneggiatura è curata da Gillian Flynn, che piega il suo romanzo L'amore bugiardo, uscito in Italia nel 2013 per Rizzoli (ne avevamo già parlato qui) senza troppi sforzi ad una resa filmica perfetta. La temporalità ad intreccio, che procede per successivi flashback e flashforward, è resa in maniera chirurgica dal montaggio di cui David Fincher è un maestro. Basti ricordare soltanto Fight club (1999), tratto dall'omonimo libro di Chuck Palahniuk, che per il tempo della narrazione sembra avere un' attenzione (e un'attrazione) paranoide, e il montaggio da Oscar di The Social Network (2010): il regista americano si conferma capace di riempire quell'eterno gap fra prosa letteraria e traduzione filmica che, nonostante spesso si risolva a netto vantaggio della prima, può essere un mezzo di enorme potenziamento per l'apprezzamento e la comprensione di un'opera.
Giulia Marziali
Social Network