di Michel Schneider
Einaudi, Torino 1991
traduzione italiana di Sergio Toffetti
pp. 181
14 euro
Michel Schneider, musicologo e psicoanalista, ha proposto un libro su uno tra i musicisti più discussi e allo stesso tempo celebrati di ogni epoca: Glenn Gould. Si tratta indubbiamente di un grande libro, sia per quanto c’è, sia per quello che invece non vi troviamo. Nella sua prosa dall’afflato quasi poetico manca proprio ciò ci si aspetterebbe di vedere: un’approfondita analisi psicologica. Schneider fa il contrario di quel che ci si attende da lui, psicanalista di professione, non concependo un mero saggio in cui si ricerchino spiegazioni al genio eccentrico di Gould, alle sue manie e alle sue scelte.
Schneider è consapevole che la personalità di Gould è sconfinata, scivolerebbe via come acqua che si tenta di trattenere con le mani. Troppa abbondanza di variabili umane per imbrigliarle in un qualsivoglia modello psicologico, in una chiave di lettura che banalmente richiederemmo a uno psicoanalista. Invece l’autore fa forse l’unica cosa possibile davanti a una personalità così fuori dall’ordinario, straordinaria nel senso più etimologico del termine: le rende omaggio, la accarezza senza spiegarne alcunché, senza pretendere di aver sbrogliato nemmeno un piccolo nodo di quella matassa di musica e genio che fu Glenn Gould. Ne scaturisce un libro poetico, uno scritto che mostra devota tenerezza e infinito rispetto verso l’artista, realizzato in pagine straordinarie quanto l’animo che si vuole raccontare. Le questioni psicologiche sono in controluce, pur rimanendo evidente che lo psicanalista Schneider ha le sue idee a riguardo; eppure l’uomo e il musicista che sono in lui mettono a tacere l'analisi, benché talvolta affiori appena (come nel caso del rapporto con la madre, maestra di canto, possibile causa del suo ancestrale bisogno di canticchiare mentre suona).
Schneider è consapevole che la personalità di Gould è sconfinata, scivolerebbe via come acqua che si tenta di trattenere con le mani. Troppa abbondanza di variabili umane per imbrigliarle in un qualsivoglia modello psicologico, in una chiave di lettura che banalmente richiederemmo a uno psicoanalista. Invece l’autore fa forse l’unica cosa possibile davanti a una personalità così fuori dall’ordinario, straordinaria nel senso più etimologico del termine: le rende omaggio, la accarezza senza spiegarne alcunché, senza pretendere di aver sbrogliato nemmeno un piccolo nodo di quella matassa di musica e genio che fu Glenn Gould. Ne scaturisce un libro poetico, uno scritto che mostra devota tenerezza e infinito rispetto verso l’artista, realizzato in pagine straordinarie quanto l’animo che si vuole raccontare. Le questioni psicologiche sono in controluce, pur rimanendo evidente che lo psicanalista Schneider ha le sue idee a riguardo; eppure l’uomo e il musicista che sono in lui mettono a tacere l'analisi, benché talvolta affiori appena (come nel caso del rapporto con la madre, maestra di canto, possibile causa del suo ancestrale bisogno di canticchiare mentre suona).
Ben lungi dunque dal saggio tradizionalmente inteso così come dalla biografia nuda e cruda, il libro si propone strutturalmente uguale alle Variazioni Goldberg di Bach, le incisioni certo più celebri di Gould: un’aria e trenta variazioni, chiuse da un’aria da capo, per un totale di trentadue brani. L’aria di Schneider, proprio come nell’opera di Bach, presenta il tema che verrà poi variato e ripreso per tutto il libro: quello della fuga, concretizzatasi nel ritiro definitivo dalle scene avvenuto nel 1964, all’apice della popolarità.
Fuga come progetto estetico ed etico deciso, concertato, coerente (p. 3),
e insieme fuga dal mondo, nella volontà di ricercare la salvezza nella contemplazione musicale, nell’artificio di quei collage chirurgici che sono le sue registrazioni in studio.
Quando parlava di Bach, dicendo che la sua opera era come pervasa da un intimo ritrarsi, parlava in realtà di se stesso, astratto dalle preoccupazioni pragmatiche inerenti all’interpretazione pianistica e «totalmente chiuso in un mondo idealizzato di intransigente invenzione». (p. 33)
In fondo la fuga dal mondo, dalle esecuzioni affollate e dalle contaminazioni, è il Leitmotiv della vita di Gould. Il suo timore del contatto fisico, del freddo, l’ostinazione nel vestire strati e strati di lana anche in piena estate: una sorta di terapia, quasi che lo sprofondare in larghi e spessi abiti potesse permettere, come per contrappasso, a quell’unica pendice scoperta – le dita – di sprigionare il vero contenuto nella musica. Il pianoforte raccontato come scelta obbligata, dovuta alle circostanze – fu sua madre che, a tre anni, lo volle pianista, eppure la sola opzione possibile, in quanto strumento musicale che maggiormente isola e al contempo permette un più vasto abbraccio alla musica. Ed è proprio alla musica che Gould vuole arrivare: quel suo piegarsi sopra lo sgabello piccolo e basso che sempre lo accompagna, quel mostrarsi quasi inginocchiato, al limite tra un’apparente volontà di unirsi in preghiera allo strumento, e in parallelo quella ricerca di solitudine, il ritrarsi dagli sguardi di chiunque.
Schneider affronta anche le questioni più discusse del Gould artista, in primis quella scelta operata più volte di infrangere il criterio filologico per eccellenza: il rispetto assoluto della partitura, della volontà del compositore. Si pensi al Valzer di Ravel, dove il pianissimo iniziale è sostituito da un destabilizzante fortissimo, o addirittura alla Burlesca della Partita in la minore di Bach, dove Gould arriva a ritoccarne le note. Schneider coglie l’inevitabilità di quelle modifiche: per Gould lo spartito è solo una delle variabili di un’equazione complessa, che comprendeva sì le note, ma anche il fraseggio, i colori, il luogo dell’esecuzione e tutto quello che in generale può dirsi contingente. Il risultato sono suoni, nient’altro che onde nel vuoto, un vuoto che però Gould sa piegare verso un risultato perfetto, puro, una verticalità ricercata in quel continuo rinnovamento che poteva passare tanto dal fraseggio quanto dalle note stesse.
La sola scusa per incidere un’opera – era solito dire – è farla in modo diverso. (p. 86)
Schneider ripercorre la vita di Gould in trentadue piccoli capolavori, un’esecuzione senza eccessi che ci rende partecipi delle sue stravaganze senza mai scivolare nel semplicistico giudizio psicologico. Così scopriamo che il suo passatempo preferito era girare in auto per ore, chiuso dentro col riscaldamento al massimo, sepolto dagli abiti, nonostante abbia cercato tutta la vita di ritirarsi nella fredda notte artica. Scopriamo che per Gould Mozart era vissuto anche troppo, e che i suoi compositori preferiti erano Gibbons e Sibelius. Scopriamo che precipitò in una torbida depressione quando il suo Steinway 174 cadde dal camion che lo trasportava a Cleveland dopo un’esecuzione. E riviviamo attraverso le sue parole quel sottile, impalpabile elisir di eterna giovinezza che Gould dà alle sue registrazioni, nella sua visione di arte come cancellazione del superfluo. Gould può esaltare e spaventare, come la terribile bellezza della verità, che ci sgomenta e al contempo ci attira. Non è forse proprio quell’assidua, incessante ricerca del vero, a ossessionare l’uomo nel suo esistere? E Schneider ci guida, ci accompagna a spiare, come da una porta semichiusa che non possiamo spalancare, la fuga di Gould verso la sua verità.
Gould tenta un’esperienza completamente diversa tenendo conferenze in varie università [...] e tiene agli studenti un discorso a dir poco brusco: «Non bisogna mai perdere di vista il fatto che tutti gli aspetti della conoscenza, che è o sarà in vostro possesso, sono possibili soltanto in virtù del loro rapporto con la negazione, con ciò che non è o sembra non essere. [...]». Gould coniugava la musica al negativo: non darsi, non prendere nessuno, non mostrarsi, non tergiversare, non forzare. [...] «la meno scientifica delle scienze, la meno sostanziale delle sostanze... Ma nessuno è mai riuscito a dirci perché questa cosa, così poco scientifica e così poco sostanziale che noi chiamiamo musica, è capace di toccarci e di commuoverci così profondamente». (p. 112)
Manuela Cortesi
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