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Ma cos'è quello che gli uomini chiamano amore: dai “classici” secondo Roberto Vecchioni

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Il mercante di luce
di Roberto Vecchioni

Einaudi, 2014


Un celebre e molto citato articolo di Italo Calvino, apparso su «L'Espresso» il 28 giugno 1981, recava il forte titolo, parenetico: Italiani, vi esorto ai classici. Vi si declinavano quattordici definizioni di classico destinate a divenire notorie ed emblematiche agli occhi di tutti i frequentatori delle letterature antiche e moderne. Questa esortazione, che è anche un deciso ammonimento dinanzi alla crisi delle lettere nel tempo attuale, ritorna, in altra forma, nell'ultimo libro di Roberto Vecchioni, Il mercante di luce (Einaudi, 2014). In una recente intervista per la televisione, il cantautore milanese rivela di aver impiegato ben dieci anni per scrivere quello che ha chiamato “il romanzo della sua vita”, la sua vita di uomo e quella di insegnante di letteratura greca al liceo, che molto spartisce con la contemporanea attività di cantautore. 


Si racconta della storia di un padre, cattedratico di letteratura greca (Stefano Quondam, quondam come l'avverbio latino che significa una volta), una madre pubblicista (Miranda) e un figlio affetto da progeria (Marco). I protagonisti e gli altri personaggi che gravitano intorno a questo nucleo portano, quasi tutti, nomi di etimo greco e/o latino: questo stabilisce fin da subito una trama specifica di interazioni, le stesse che tra quegli stessi nomi correvano nell'immaginario mitico degli antichi (Ulisse, Achille, Athena e via dicendo). Il fil rouge che si snoda attraverso le centoventi pagine di narrazione è un viaggio tra le parole degli autori greci, parole che Stefano trasmette al giovane-vecchio Marco, come lascito di bellezza e, al tempo stesso, tentativo estremo di salvazione. E la bellezza è nei segni, l'amore è nella scrittura da Omero e i lirici alla tragedia, che non è una finzione pessoana ma “una giornata intera di ri-creazione del mondo, anzi del proprio mondo” (che è, poi, un altro modo di dire catarsi), fino ai più tardi epigrammisti, incastonati negli episodi del romanzo come gemme in una corona. 

Questo racconto di Vecchioni ha il grande pregio di rileggere i classici, proprio secondo l'esortazione di Calvino e trasuda l'esperienza e la pluridecennale dedizione all'insegnamento del professor Vecchioni a cui va tutta la stima di noi studenti e studiosi del mondo antico, se non altro per questo ennesimo tributo all'ingegno dei padri del pensiero occidentale (è del 2004, ancora per Einaudi, un'altra storia di bibliofilia, Il libraio di Selinunte). Cito, a questo proposito:
Insegnare greco significa specchiarsi nell'universo: astrarre, uscire, rientrare nei giorni, sapendoli finalmente per quel che sono: un insieme di parole, sparpagliate luci accese a comando per riconoscere le cose una alla volta dal fango al divino, una lunga fila di premesse del destino, se pure qualcuno si chiede del domani; uno sfidato equivoco, un incessante cercare di capirsi tra la mente e le cose. Insegnare greco significa ricollocare al loro posto tempo e spazio, ferirli di spada nel loro interferire continuo coi sentimenti umani, ammaestrarli, esorcizzarli, tagliandogli la provocatoria offesa di esistere. (p. 9) 
Non è mai abbastanza ribadire, e non a caso nello spazio di una recensione, che è esattamente lì, nei classici, che rintracciamo senza ombra di dubbio gli strumenti fondamentali con cui interpretare oggi la nostra età. Questo bisogno di strumenti è lo stesso nell'accorato appello di Calvino e nella testimonianza quasi autobiografica dell'opera di Vecchioni. L'autore non solo racconta attraverso le parole perenni dei greci (che restituisce anche nelle più celebri traduzioni di storici colleghi e poeti con cui dialoga), ma lui stesso traduce; ovvero attinge a note edizioni (delle volte, a dire il vero, non molto aggiornate) e propone la traduzione sua, una traduzione d'autore consolidata in anni di scuola sì, ma pur sempre prodotta nella e dalla penna (che è anche la pena) di un canzoniere, anzi, di uno dei padri storici della canzone d'autore in Italia (come recita la quarta di copertina). E non solo traduce ma talora riscrive in gustose metafrasi, che puntualmente denuncia in nota, da saggista. 

È quello di Roberto Vecchioni, a mio modesto parere, l'invito alla lettura più significativo. Le sue lectiones in forma di romanzo, anche dove rivelano un sottinteso proposito divulgativo, hanno il carattere della nostalgia e della coerenza (come lui traduce andreìa), due attitudini dello Spirito che fanno l'uomo, le sue radici intime. E questo è chiaro da un breve passaggio del romanzo in cui Quondam risponde a Marco: 
- Perché questo? Perché mi parli di questo?
- Non so. O forse sì. Perché tutti i secoli sono stati copie immobili e ripetitive del mio tempo, della Grecia, delle cose che ho amato. (p. 93) 
Sembra riascoltare un'eco dei dialoghi con Leucò di Pavese, il sugo della storia classica. L'esercizio di metaletteratura eseguito da Vecchioni concilia, da abile cantastorie e funambolo della parola che è, lo stile della tragedia, dell'epigramma, dei dialoghi tragici fatti carne viva, delle canzoni attiche e di Lesbo. Tutte “divine idiozie” - così le apostrofa e imprime Miranda, nell'odi et amo che è stata la sua vita con Quondam – che l'hanno folgorato al punto di dire: 
(…) se io morissi domani con l'Antigone sul petto, non chiederei altro, avrei sentito, avrei avuto tutto. (p. 94)
Vi lascio questo breve invito alla lettura con un paio di traduzioni dello stesso autore che scoprirete nel libro, quando e se riterrete utile leggerlo (sono in ordine: Archiloco, Omero, Saffo): 

Cuore, mio cuore sconvolto 
in mezzo a pene senza fine, aspetta l'assalto
dei nemici, stai ben fermo all'istante
dello scontro e se vinci non fartene
gloria, se scivoli e cadi non piangere
mettendo il muso al destino: no, no,
goditi i tuoi momenti di gioia
e affliggiti al dolore quanto basta, impara
la melodia, il ritmo della vita umana. (p. 60)

Una nebbia improvvisa, una notte impenetrabile
sospendono la battaglia dei greci; allora
Aiace, smarrito: «Zeus padre, - dice – libera
da questa nebbia i figli degli achei, porta il sereno:
poi sterminaci pure, ma nella luce» (p. 78)

Dicono che sopra la terra nera
la cosa più bella sia una fila di cavalieri
o di fanti, o di navi.
Io no, io dico invece: quello che si ama. (p. 97)

Andrea Gatto