Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia
di Matteo Marchesini,
Quodlibet, 2014
pp. 520
Euro 28
Il libro di Matteo Marchesini provoca.
La recensione potrebbe concludersi in questo modo, perché chi scrive è fortemente convinta che un critico (per di più militante) ha il sacro compito di docere, movere, delectare. Alle funzioni del discorso enunciate da Quintiliano bisognerebbe aggiungere, forse, un altro verbo: interrogare. E Marchesini soddisferebbe anche il quarto criterio.
La recensione potrebbe concludersi in questo modo, perché chi scrive è fortemente convinta che un critico (per di più militante) ha il sacro compito di docere, movere, delectare. Alle funzioni del discorso enunciate da Quintiliano bisognerebbe aggiungere, forse, un altro verbo: interrogare. E Marchesini soddisferebbe anche il quarto criterio.
Il giovane scrittore non si pone in cattedra, non si ammanta
di auree fittizie e false, non prende la bacchetta, non comincia a dispensare
verità critiche come se solo dalla sua bocca potesse uscire oro colato, non
polemizza in maniera sterile, non distrugge nulla. Semmai costruisce. E
costruisce interrogando e interrogandosi. Costruisce rischiando e sfidando(si).
Marchesini avrebbe potuto rimescolare i materiali e creare
un’opera più fluida, meno spezzettata: e invece ha abbracciato il frammento.
Operazione ardua, perché il frammento non può dire tutto,
non può pretendere l’esaustività. Ma può provocare: evocando. Non si evocano
solo sentimenti, ma anche guizzi della mente. Non si evoca solo un paesaggio,
ma anche la Storia (quella con la S maiuscola). Non si evoca solo qualcosa che
non c’è più, ma che continua ad avere riflessi (e riflussi) sul presente, ma
anche una mole sterminata di uomini che hanno prodotto scrittura. Non si evoca
solo un modello, ma anche una fitta rete di rimandi ineludibili, che, per la
teoria dei vasi comunicanti, avvicinano personalità e persone tra loro distanti
nel tempo e nello spazio.
Per questo il libro di Marchesini ha colto nel segno: perché
ha avuto la capacità di evocare il solo e anche il non solo, frammentando
discorsi ampi e ardui. Racchiudere personalità, persone, produzioni, ego,
creatività, come quelle di Pascoli, di Savinio, di Caproni, di Sereni… in una
manciata di pagine è mettersi sul crinale: da un lato il rischio di apparire
superficiale, di liquidare con sentenze lapidarie (tendenti a volersi fare cliché etichettatori) fenomeni indagati
in ogni singola fibra; dall’altro l’essere in grado di generare curiosità e
domande, di non permettere l’appiattimento sul “tanto lo ha detto quel
critico”, di non glorificare o demonizzare aprioristicamente, e allo stesso
tempo di dare impulsi di accordo o di disaccordo.
A poco più di trent’anni, Matteo Marchesini ha forse
lasciato un profondo insegnamento che si tramanderà, e che sarà in grado di
sfuggire all’effimero: che la critica (militante) non può dire tutto, pur
conoscendo il tutto (che poi “il tutto” esiste davvero?), ma deve essere in
grado di scegliere, di filtrare e di fornire una prospettiva mobile, che sappia
adattarsi all’eracliteo pantha rei.
Il tutto scorre è, forse, il leitmotiv che scandisce i frammenti di Marchesini (ovviamente a
parere della scrivente): o meglio, la consapevolezza che la critica può
sopravvivere al tempo, ma che ne è succube, e che deve sapersi adattare.
Non torri d’avorio, non osservatori privilegiati, non
lezioni dalla cattedra, non ruoli preconfezionati e portati avanti a tutti i
costi, non etichette posticce attaccate alla giacchetta come fiori
all’occhiello sfioriti, non diapositive di un tempo che fu: ma la realtà mobile
e fugace, magmatica e presente, irrequieta e irrisolta, contraddittoria perché
viva, ossimorica fino allo scontro, pacificata non dall’ipse dixit, ma dal confronto.
Nella premessa Marchesini scrive: «Per anni, ho steso quasi
un articolo al giorno: ma anche se si trattava di un corsivo brevissimo, non
sono mai riuscito a spedirlo senza averlo prima rifinito in modo che potesse
resistere almeno un po’ al tempo» (p. 11).
Come si resiste al tempo? Interrogandolo: senza mai
stancarsi di chiedere il perché dei suoi moti. Sfidandolo: cercando di dare
vita a quello che in apparenza giace sotto una spessa coltre di polvere.
Accettandolo: saper cogliere ogni lieve e impercettibile sfumatura. Ma
soprattutto considerandolo: senza fare finta che il cristallo costruito sia
immortale e intoccabile.
Ma la vera chiave di volta è quella che soggiace a tutta
l’opera di Marchesini: la fertilità del confronto, e la consapevolezza che un
uomo non può tuffarsi nello scibile e arrivare a toccarne le sponde. Il porsi
domande è la vera rivoluzione di Da
Pascoli a Busi: titolo già provocatore, già (ir)risolutorio, di
un’operazione ambiziosa, perfettibile, ma riuscita.
Un libro che segna un punto di svolta, e che fa riflettere
sulle modalità con cui avvicinarsi alla letteratura, sulla funzione del critico
(pezzo da novanta dell’operazione di Marchesini è quella di includere nella sua
“mappa” i saggisti), sullo stato attuale della cultura (degno di plauso il
saggio su Saba). Un libro che non può non essere considerato nella statura che
gli compete: un mosaico eterogeneo, vivace, intelligente e acuto; ma soprattutto
un punto (dichiarato) di non ritorno.
Il tutto levigato da una prosa mai troppo giornalistica, ma
nemmeno troppo specialistica; mai troppo divulgativa, ma nemmeno troppo
elitaria. Una prosa che evoca, che si impenna a tratti, senza mai cadere nel
barocchismo sterile; una prosa concreta, fatta da immagini che si sovrappongono
senza mai affollarsi. E soprattutto una prosa colta, che sa perfettamente
quello che dice, senza mai virare all’erudito.
Una sperimentazione riuscita, di contro alle (troppe)
compilazioni irrisolte.
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