di Liad Shoham
Giano, 2014
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
pp. 304
€ 13,90
Uno stupro avviene nei ricchi quartieri nord di Tel Aviv. Liad Shoham segue le vicende che scaturiscono da questo
evento traumatico attraverso diversi personaggi che in un modo o
nell'altro ne sono coinvolti: non solo Adi, la vittima, ma anche, tra
gli altri, una sua vecchia vicina di casa che assiste alla violenza,
un giornalista, Amit, incaricato di coprire la notizia e Yaron, il
padre di Adi. Quest'ultimo, durante un suo appostamento notturno,
vede aggirarsi nello stesso quartiere dove è avvenuta l'aggressione
un uomo che corrisponde all'identikit del colpevole e che si comporta
in maniera sospetta. Decide così di contattare Eli Nachum, il
commissario cui è affidato il caso. Nachum, per sua stessa
ammissione, è un “poliziotto vecchio stile”, riflessivo, che
basa il suo mestiere su un lento e costante lavoro intellettuale; per
questo motivo mal si adatta ai nuovi standard adottati dalla polizia
secondo i quali l'efficienza è quantificabile e si misura con dati e
statistiche, riducendo il lavoro di detective ad una catena di
montaggio nel cui bilancio figurano solo i meri numeri.
L'interrogatorio è scritto senza orpelli o tergiversamenti in descrizioni
e passaggi non necessari al proseguimento della trama, se si
eccettuano brevi escursioni nel passato dei personaggi per
inquadrarli meglio senza però approfondirne le psicologie. Pur
essendo dunque l'azione a mantenere la tensione del romanzo, non si
tratta di una storia adrenalinica.
Ziv Nevo sembra proprio essere il colpevole che tutti cercavano:
divorziato, licenziato da poco, con una storia di molestie sessuali
alle spalle, è il classico tipo capace di passare allo stupro. Il
modo in cui è stato riconosciuto dalla vittima, spinta se non
addirittura influenzata dal padre e senza un regolare confronto
all'americana, rischia però di inficiarne la validità mettendo in
pericolo la convalida dell'arresto. Nachum è infastidito da questi
problemi burcratici: cosa possono i cavilli giudiziari di fronte al
buon senso e all'istinto che lui ha affinato in anni di servizio?
Ecco perchè vuole strappare a Nevo una confessione prima della fine
dello Shabbat, quando è sicuro che nessun avvocato arriverà in suo
soccorso con trucchetti e pretesti legali. E' la classica situazione
in cui tutti, a cominciare dalla vittima e dai suoi parenti,
desiderano lasciarsi la questione alle spalle il prima possibile e
ricominciare a vivere provando a dimenticare; è necessario, insomma,
trovare alla svelta un colpevole.
Ben presto, però, viene esplicitato quello che il lettore
avvertiva da tempo: c'è stato un grosso malinteso, Nevo non ha
commesso la violenza sessuale. Ma allora perchè inizialmente
sembrava voler confessare? In cosa è coinvolto? Chi sono Meshullam e
Faro, suoi complici in ciò che stava progettando? Pur rimanendo un
po' di vaghezza, il succo della questione viene svelato in fretta,
senza lasciare quel tocco di mistero in più che avrebbe giovato alla
narrazione.
In un saggio dedicato alla Série Noire dell'editore
francese Gallimard, Gilles Deleuze sostiene che il romanzo
poliziesco classico si basa su un geniale investigatore la cui
indagine, portata avanti attraverso l'intuizione o la deduzione, può
essere interpretata come una ricerca della verità. Allo stesso
tempo, però, il filosofo francese ritiene che nella realtà
“l’attività poliziesca non ha nulla a che vedere con una ricerca
metafisica o scientifica della verità”: di norma i casi vengono
risolti non per il dispiegamento di forze razionali ma quasi per
caso, attraverso una serie di errori, piste false, movimenti a vuoto,
elementi fortuiti.
Leggendo L'interrogatorio alla
luce di queste riflessioni, possiamo dire che nel suo libro
Shoham mette in scena il conflitto
tra mito letterario e realtà poliziesca: da una parte l'eroe
solitario che va avanti con la sua logica e la sua pancia, dall'altra
il freddo regolamento che trasforma tutto in routine e cerca proprio
di far in modo che a condurre le indagini non siano le estemporanee
intuizioni del singolo ma il rigore e la concretezza formali quali
garanti delle procedure democratiche.
Quando
l'errore commesso dalla polizia viene riconosciuto e sembra che le
accuse nei confronti di Nevo stiano per cadere, la situazione si
ribalta di nuovo, in un meccanismo ben orchestrato dall'autore, che
si diverte a mettere Ziv in una situazione che, prendendo in prestito
un termine scacchistico, possiamo definire zugzwang:
qualunque sia la mossa che decide di fare, è destinato a perdere.
Ora, infatti, Nevo si dichiara nuovamente colpevole: perchè? A
questo punto della narrazione troviamo da una parte la pubblica
accusa che, pur ritenendo l'imputato colpevole, deve accontentarsi di
un'incriminazione minore (lesioni e non stupro) per arrivare ad un
patteggiamento che scongiuri un processo in cui la consistenza delle
prove verrebbe messa a dura prova; dall'altra un avvocato della
difesa che potrebbe sfruttare le difficoltà della polizia per far
assolvere il suo cliente ma che ha ricevuto da quest'ultimo il
mandato di farlo condannare. In mezzo, la faglia sottile che divide
la giustizia e il rispetto delle regole, i fatti e la loro
ricostruzione, ciò che è legittimo ipotizzare e ciò che si può
dimostrare. Un crinale delicato, muovendosi lungo il quale è sempre
facile cadere. Forse ha ragione Deleuze: in tutto questo la verità
non c'entra nulla.
In
un momento storico in cui una certa vulgata in tema di regole vuole
che ogni legge sia un laccio che ostacola le azioni che andrebbero
fatte per risolvere le questioni importanti, questo romanzo ha il
merito di problematizzare la questione. Se la valutazione attraverso
i dati può spingere a chiudere i casi in fretta per guadagnare
“punti” nella classifica di rendimento, anche le convinzioni
personali possono prevalere sulle prove effettive ed un poliziotto
sicuro del suo istinto leggerà la realtà come più gli fa comodo.
In ogni caso la pretesa di esaurire con soluzioni tecniche questioni
di questo tipo si rivelano illusiorie: nel bene e nel male il fattore
umano resta una variabile ineliminabile dell'equazione. Non c'è
dunque un confine netto a separare le pratiche virtuose da quelle
deleteree; il cammino verso la giustizia è impervio qualsiasi sia il
percorso che si sceglie.
Tenendo
sempre a mente il saggio di Deleuze, è interessante notare come ne
L'interrogatorio,
sia sul versante criminale che su quello poliziesco, a far progredire
la trama non è il raziocinio, la pianificazione, ma il caso, le
coincidenze, il fato che colpisce gli uomini ignari di essere pedine
di un gioco più grande senza scopo né senso contro il quale possono
veramente poco. A mostrare l'imprevedibilità degli eventi e la
sostanziale imperscrutabilità della verità, nascosta allo sguardo
umano dalle nebbie del caso, ci aveva già pensato Friedrich
Dürrenmatt (ad
esempio nel suo celebre romanzo La promessa),
considerato per questo il teorico della fine del giallo nell'epoca
moderna. Con L'interrogatorio
siamo lontani dal respiro metafisico delle riflessioni dell'autore
svizzero, nella trama niente allude a qualcosa che trascende i fatti
narrati, ma il meccanismo con cui gli eventi si susseguono è lo
stesso.
E' pur vero,
però, che la scelta del realismo rigoroso non premia il libro: la
scoperta del vero stupratore sarebbe stata più appagante per il
lettore se, con una concessione al romanzesco, fosse arrivata in
maniera meno fortuita tramite un appiglio più solido a quanto
avvenuto nel corso della storia. Ma anche quando, come nel finale,
questa regola viene rispettata, manca comunque qualcosa:
l'ingrediente magico che tiene il lettore in sospeso, smanioso di
scoprire come andrà a finire.
Realismo,
suspense, sospensione dell'incredulità, temi forti, personaggi
affascinanti: come si combinano tutti questi elementi per creare il
giusto rapporto tra scrittore e lettore? Con buona pace di tutte le
teorizzazioni, e probabilmente per fortuna, il mistero del thriller
perfetto è ben lungi dall'esser risolto.
Nicola Campostori
Nicola Campostori
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