di Amitav Ghosh
Neri Pozza Editore, 2011
traduzione di Anna Nadotti e Norman Godetti
pp. 582
€ 18,50
Avevamo lasciato i protagonisti fra le pagine di Mare di papaveri, primo libro di una trilogia, a bordo della goletta Ibis salpata alla volta di Mauritius, isola-prigione dell’impero britannico. Ricordiamone alcuni: Zachary Reid, l’ufficiale figlio di una schiava liberata del Maryland, Jodu, figlio di un barcaiolo che sogna di diventare lascaro, Paulette, orfana di origini francesi accolta nella propria famiglia da Benjamin Burnham, proprietario della Ibis, Serang Ali, il capo dei lascari, Deeti, vedova che lotta per recuperare la libertà, Neel Rattan Halder, raja di una terra sterminata che paga a caro prezzo l’incrocio dei suoi destini con quelli di Burnham.
Mare di papaveri era concepito da Amitav Ghosh come una guerra fra mondi, grazie a una costruzione che lavorando su un piano multiculturale, plasmando un insieme molto ricco, faceva comunque emergere figure che personificavano letterariamente il concetto di fondo: Burnham e Neel. Attraverso la fine della loro amicizia, sempre molto interessata a dire il vero, Ghosh portava a galla il prezzo pagato dall’India al colonialismo britannico, capace di trasformare il lussureggiante Bihar in una terra di monocultura dedicata al redditizio oppio. Quello stesso oppio che doveva poi raggiungere Calcutta e da qui navigare fino a Canton per imporsi in Cina.
Con “Il fiume dell’oppio”, la seconda puntata, siamo nella città del celeste impero, governata da leggi scritte e soprattutto non scritte che consentivano una convivenza sul filo del rasoio ma miracolosamente salda tra interessi commerciali cinesi e stranieri. Non solo europei a dire il vero, anche parsi, armeni, tibetani, ma i sudditi britannici e i cittadini americani erano i meglio organizzati e agguerriti. Esisteva una lingua di terra, un’enclave riservata alle factory europee, sorta di consolati che sottostavano alle deliberazioni di una Camera di Commercio dove i membri dell’impero britannico facevo il bello e il cattivo tempo.
Intanto sottolineiamo un aspetto non scontato. Questa seconda puntata lascia indietro tanti personaggi della prima. Ed è una scommessa dell’autore che rischia di deludere i lettori che vedono sparire di colpo Deeti dopo una fugace apparizione - sono certo che ne soffriranno le lettrici perché Deeti è concepita come la classica eroina da romanzo d’appendice - e beneficiano appena di una riga su Zachary Reid. A dire il vero sparisce pure la Ibis e Canton si prende tutta la scena. Se ne aggiungono altri di personaggi, in particolare il commerciante parsi Bahram che sfida la sua famiglia naturale investendo pesantemente sul commercio di oppio. Il suo ultimo carico è un o la va o la spacca. Bahram ha altri motivi per raggiungere Canton: una moglie illegittima da cui ha avuto un figlio, prigioniero nella Ibis con Neel. Per varie vicende che non cito per non togliere gusto alla lettura, è questo figlio e compagno di prigionia ad accreditare Neel dinanzi a Bahram che lo assume fra i suoi collaboratori.
A questo punto, nel romanzo finale della trilogia, quello decisivo e di cui è prevista l’uscita a novembre di quest'anno, Amitav Ghosh dovrà riprendere le tessere abbandonate, assemblarle con quelle intervenute e completare il mosaico. Alcuni indizi narrativi e certi epiloghi fanno balenare la direzione che intraprenderà.
Dobbiamo dire che la prospettiva storica più generale analizzata con “Mare di papaveri”, l’arrivo degli inglesi nella mistica India e quanto di dirompente ha rappresentato tale passaggio, si riduce, non in senso negativo ma di avvenuta focalizzazione, a uno sguardo su uno di questi due mondi: l’impero britannico e la cultura di fondo dell’occidente. Stavolta a confronto con la Cina. Storicamente siamo infatti nella fase in cui l’imperatore di Pechino si è convinto a stroncare il commercio di oppio e la diffusione della droga nel suo paese per cui Canton vive un momento di delicata transizione fino all’arrivo del nuovo governatore, non il solito mandarino corruttibile ma un integerrimo funzionario con pieni poteri che compie gesti a giudizio degli stranieri inauditi e tirannici.
Amitav Ghosh mostra la contraddizione di fondo del libero mercato, concepito come mano invisibile, intoccabile da qualsiasi autorità politica e civile, il libero mercato venerato come religione, non a caso per alcuni diretta emanazione di Dio come una delle possibili declinazioni del principio generale di Libertà, regola sacra e interdetta a qualsiasi condizionamento. La cosa è molto attuale se si pensa poi che i grandi mercanti inglesi che si scagliano a gran voce contro l’intervento pubblico nell’economia, nei loro affari, in sostanza nelle loro vite, supplicano l’arrivo delle truppe britanniche e le tutele del loro governo quando sembra che la situazione stia precipitando per l’ostinata volontà cinese. Ghosh schiaffa dinanzi a noi ciò che significa democrazia per i fautori di questa fede: uno dei protagonisti dice in sostanza che è la forma di governo che consente alle persone comuni di occuparsi delle cose comuni per lasciare alle persone importanti il privilegio di occuparsi di ciò che conta davvero. La Camera di Commercio cantonese retta dagli inglesi somiglia, non so... alla BCE.
È interessante infine come Ghosh scelga due personaggi per dirci che esiste anche qualcosa di diverso nel mondo della politica e degli affari: il nuovo governatore cinese, quasi un viceré di Canton, e un cittadino americano che si scaglia contro l’ingordigia degli affaristi stranieri convinti a contrabbandare l’oppio a dispetto di ogni divieto. Il governatore è uomo di orgoglio, onesto, di notevole levatura culturale, scriverà una lettera alla regina Vittoria dove prefigura una sorta di convivenza mondiale, realizzabile solo quando ciascuna nazione rinuncerà a prevaricare i diritti legittimi di un’altra e alla guerra come strumento di soluzione delle controversie interne e diplomatiche. L’americano non è un comunista, anzi è un sincero liberoscambista, un borghese di rango che tiene tuttavia a ciò che potremmo definire... reputazione personale e di classe. Uno di quelli che non vogliono vedere la famiglia alla quale appartiene dalla parte del torto marcio. Chissà come chiuderà l’indiano cosmopolita Ghosh il terzo romanzo. Diciamo che con questo secondo pare prediligere un asse geopolitico cino-americano che fin dall’Ottocento appariva auspicabile.
Marco Caneschi