Era il 17 febbraio dell’anno 1600 quando Giordano Bruno fu arso vivo in piazza Campo de’ Fiori, a Roma. Venne scortato verso il rogo con la lingua in giova, serrata in una morsa di legno. Sino all’ultimo la follia controriformistica lo volle tenere imbavagliato. Prima di quella fatidica data pare sia stato talvolta sul punto di abiurare. Tentò di venire a patti con gli inquisitori, ma questi non gli lasciarono scelta. O tutto o niente. Venga rinnegato in toto quello che la Chiesa ti contesta, o morte. Siamo in piena Controriforma, c’è poco da trattare. Bruno deve fare quanto gli viene chiesto per avere salva la vita. Ma non lo fece. Non poteva rinunciare alla sua verità, alle sue opinioni.
Pochi sanno che Giordano Bruno si chiamava in realtà Filippo: il nome Giordano gli fu dato quando entrò nell’ordine domenicano. Già: era cresciuto e aveva studiato proprio in seno a quella Chiesa che poi lo condannò. Insomma era partito col piede giusto. Studiava teologia. Sulla materia nulla da eccepire. A metterlo nel sacco è stato l’approccio. Bruno faceva come un po’ come i teologi tardoantichi, quelli che se ne stavano tutto il giorno a discutere con altri teologi e poi cercavano un punto d’incontro nei concili ecumenici. Dio è uno? Dio è trino? Bruno voleva dibattere, dialogare sugli argomenti che non lo convincevano, questioni teologiche comprese. In piena Controriforma.
Ma dibattere cosa? In primis, quell’aristotelismo tanto in voga tra i suoi contemporanei. Un Aristotele fatto di compendi, riassunti e indiscutibili norme. La poesia dell’epoca era un pedante atto di fedeltà alle letture dei trattatisti della Poetica. Secondo questi, Aristotele ci ha lasciato chiare regole per il giusto poetare, dalle quali è inopportuno discostarsi. Ma se invece i trattatisti si stessero sbagliando, si domanda Bruno, e quanto ha scritto Aristotele fosse in realtà il ritratto della poesia a lui contemporanea? Non una normativa di severe regole, ma solo la descrizione di quanto Aristotele conosceva. Bruno, che aveva letto Platone e i neoplatonici, ne assorbe il concetto di furor che reimpiega nel difendere l’individualità del poeta: ciascuno ha il suo furor artistico, un demone entusiasta che deve potersi esprimere liberamente, senza gabbie. La poesia sarà così impeto genuino e non fredda omologazione, tanta e variata quanto lo è l’umanità.
Il monumento a Giordano Bruno nella piazza romana di Campo de' Fiori (1889). |
Così Bruno partì per la Germania, conobbe il luteranesimo, insegnò in diverse città, tra cui Zurigo e Praga. Poi nel 1591 varcò di nuovo le Alpi, e rientrò in Italia. C’è incertezza sui motivi che lo spinsero a tornare. La decisione fu probabilmente maturata a seguito degli incontri avvenuti alla Fiera del Libro di Francoforte. Quel che è certo è che l’anno dopo si sistemò a Venezia, ospite di Giovanni Francesco Mocenigo, un ricco veneziano appassionato lettore delle opere di Bruno. Tra i due qualcosa andò storto. Alcuni ritengono che Bruno volesse rientrare in Germania, altri dicono che semplicemente irritò Mocenigo coi suoi modi polemici e irrispettosi. I fatti sono che Mocenigo fece una denuncia e l’Inquisizione arrestò Bruno il 22 maggio 1592. L’anno successivo fu trasferito a Roma al Santo Uffizio.
La tentazione oggi è quella di incensare Bruno a paladino della razionalità. Nulla di tutto questo: Bruno si applicò alla mistica, alle pratiche alchemiche e addirittura alla magia. Bruno era uno spirito curioso e si accostò così anche a materie che adesso ci fanno sorridere o storcere il naso. Ma quello che deve far riflettere è il modo in cui approccia ogni argomento: lo fa con slancio, senza nessuna autocensura, con fiducia e onestà. Perché Bruno credeva fosse possibile una società laica, rinnovata, che sapesse mostrarsi tollerante in ambito religioso, che rispettasse l’uomo nel suo essere individuo autonomo e senziente, del tutto libero negli studi e nell’esprimersi. Che non allontanasse coloro che parlano di faccende scomode. Una società che non giustiziasse i propri figli quando questi disobbediscono e gridano a voce troppo alta. Bruno credeva nell’uomo e nelle sue capacità. Facciamo sì che quel rogo che ha avvolto Bruno rompa l’oscurità. Bruno ci ha creduto fino in fondo. Dobbiamo crederci anche noi.
ICADA: Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio, ed altri molti in numero de versificatori, examinandoli per le regole de la Poetica d'Aristotele.
TANSILLO: Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie; perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell'omerica poesia o altra simile in particolare, e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instistuir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori de diversi geni.
CICADA: Sì che, come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell'una sorte, cioè dell'omerica poesia, in serviggio di qualch'uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero, non di propria musa, ma scimia de la musa altrui.
TANSILLO: Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti.
CICADA: Or come dunque saranno conosciuti gli veramente poeti?
TANSILLO: Dal cantar de versi; con questo che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme.
(De gli eroici furori, parte I, dialogo I)
Manuela Cortesi
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