"Psicoanalisi in rosso", la storia di una terapia infame

Psicoanalisi in rosso
di Giorgia Walsh

Sedizioni, 2014

pp. 114
€ 16,00 



Il romanzo italiano è stato sempre caratterizzato da una tensione tra strutture narrative e argomentative con esiti diversissimi: i più sgargianti sono certo quelli in cui il racconto cerca di superare la propria natura o la rifiuta trionfalmente, ma esiste anche una linea, non proprio sotterranea, in cui le narrazioni impegnate e di denuncia dànno a questa tensione una forma dialettica. Qualche esempio arcinoto: la gran cattedrale romanzesca d’Italia, I promessi sposi, non ha ragione d’esistere senza la sua controparte d’inchiesta storico-giudiziaria, La storia della colonna infame; viceversa, non si può dire che le scritture d’inchiesta di Sciascia (L’affaire Moro, La scomparsa di Majorana) non abbiano influito pesantemente sulle sue incursioni nel genere più rassicurante per eccellenza, il romanzo giallo. Si tratta di una maniera – forse, davvero, “tutta italiana”: la letteratura straniera, specie quella americana, ha risposto in ben altro modo – di risolvere il conflitto tra narrazione ed ethos che si viene a creare di fronte alla necessità di raccontare il male. La scrittura, infatti, è di per sé un atto razionalizzante, e scrivere il male è l’atto più dispendioso tra tutti: perché e come si può dare ragione di ciò che è sbagliato senza schierarsi o soccombere di fronte all’imponenza dell’errore? 

Ogni libro che vuole proclamare una denuncia costituisce un esperimento di questo tipo, e Psicanalisi in rosso ne è un ottimo esempio. L’esordio di Giorgia Walsh (uno pseudonimo) intende infatti raccontare una storia particolarmente difficile: l’abuso – psicologico e sessuale – perpetrato da uno psicoterapeuta ai danni di una sua giovanissima paziente affetta da depressione. Un tema decisamente delicato, perché ci parla di fragilità (quella della giovane protagonista), di meschinità (quella dello «psicoanalista cinquantenne, Sembiante»), ma non solo, perché il desiderio di denuncia della giovane solleva problemi di silenzi e deontologie tradite. 
Dimenticate la torbida relazione tra Jung e la Spielrein, che certo, al lettore d'oggi viene subito in mente: niente di lirico qui, né libri rossi affollati di visioni. La storia di Psicoanalisi in rosso è in due atti – quello, «banale», della seduzione e quello, fatta di tante taglienti omertà, del «processo» – ma ha un nucleo narrativo di per sé crudo e lineare: come tante donne della storia, reale o finzionale che sia, la nostra protagonista è stata ingannata sfruttando la sua fragilità, è stata sedotta, consumata e gettata in un canto; come tante donne il suo desiderio di riscatto e giustizia si scontra contro un muro impenetrabile. Ciò che è interessante è che questi due atti sono, in tutto e per tutto, non una narrazione schietta, ma la ricostruzione di una persona vicina all'anonima a partire da materiali preesistenti, da sue lettere e memorie. Una ricostruzione che ha un carattere quasi processuale, quasi a ricostruire per via narrativa – con una storia – il giusto processo che la giovane protagonista non ha potuto ottenere.

Un risarcimento al dramma di una storia già consumata tramite una storia d’altro tipo, segnata su pagine fitte di città senza nome, pseudonimi (senhal), anonimi e testimonianze marginali. Commenti di un narratore esterno, virtualmente onnisciente, che in un altro livello dell’esistenza – quello fuori dalla pagina – ha partecipato del dolore della protagonista, lo ha fatto proprio tanto da farne materia di scrittura; un narratore che pure cerca di rivestire un abito imparziale, di giudice e teste, di storico che cerca di venire incontro ai lettori, come?, razionalizzando l’esperienza di una fragilità interiore, dell’«errore». Dar ragione del male: l’atto più dispendioso in ogni esperienza di scrittura. In tutti questi elementi non è difficile riconoscere una impostazione genuinamente manzoniana; ma, viene da aggiungere, di un Manzoni che (con buona pace della sua pur longeva attività) sia sopravvissuto alla rivoluzione della psicanalisi e della frammentazione, che abbia letto pagine su pagine della letteratura confessionale del Novecento e abbia pensato che valesse la pena ricostruire la storia d’una terapia infame.

Una storia «banale», ripete il narratore e, più avanti, la protagonista. Ma lo è davvero? Poche pagine dopo, a margine, si dice che il dramma della giovane anonima «per tanti versi assomiglia a uno squallido feuilleton, ma […] in primo luogo è stato un attentato alla sua salute e alla sua vita». In anni in cui la discussione sulla violenza sulle donne ha un forte impatto sulla riflessione letteraria, un esperimento narrativo come questo, vicino ad altri della nostra tradizione e insieme tanto più originale, ha un suo valore non soltanto per i temi che denuncia, ma perché lo fa recuperando una salutare tensione tra urgenza del racconto e ragione dell’argomentazione, a cui sempre più spesso tende a esser preferita una certa bulimia affabulatoria dal sentimento facile: un vaccino, insomma, contro la tentazione di fare di un dramma «banale» (banale come tutte le nostre storie) un feuilleton o la puntata di un talk show pomeridiano.
L’anonima è una a cui è sempre piaciuto fare la dura, e risponde con un certo sarcasmo […]. Ma quella frasetta, “sono fatti suoi”, le rimbalza nella testa e riapre la ferita. “Fatti suoi”, è questo il punto, la cosa che non è mai riuscita ad accettare, il motivo per cui ha dovuto andarsene. “Fatti suoi”, in quello studio c’è stata solo lei e la giovinezza è stata solo sua, la sua giovinezza, il suo tempo, le sue forze, tutto suo e di nessun altro, è lei che ha perso, e nessun altro, e niente di quello che ha perso le verrà da qualcuno restituito.

Laura Ingallinella