God Save the Drag Queen. Dall'officina al palco, un viaggio memorabile tra arte, piume e paillettes
Sara Perro
Zandegù, 2015
Sara Perro
Zandegù, 2015
Non so a quanti di voi sia mai capitato
di assistere ad uno spettacolo di drag queen. Io ci sono stata, più volte, e posso
assicurarvi che non è affatto disdicevole. Quelli a cui sono stata io si svolgono
in comunissimi caffè, con un pubblico di gente perfettamente padrona
di se stessa, in un'atmosfera gioiosa e allegra, e senza traccia di
quel côté equivoco che si tende a dare agli spettacoli da
nightclub. Si fa spesso confusione quando si parla
di drag queen: non hanno niente a che vedere con prostituzione,
transessualismo, pratiche estreme. Delle volte il discorso non è neanche
riferito totalmente all'omosessualità. Quello che generalmente non
viene recepito è che chi si traveste non si traveste perché è
omosessuale. Si traveste perché gli piace farlo. Il fatto che poi la
maggioranza delle drag queen sia effettivamente omosessuale non è
il punto più fondamentale della discussione.
Le drag queen sono performer, sono individui di sesso maschile che si travestono da
donna, scimmiottando le soubrette e le svampite della tv (e i loro
nomi, da Carla Stracci a Simona Sventura, da Ivana Tram a Wanda
Gastrica) con straordinaria e sorprendente abilità, e intrattengono
il pubblico con balletti, canzoni, allegri siparietti in spettacoli
divertenti e coinvolgenti. Un drag show è una splendida kermesse baracconesca, un carnevale di tacchi, paillettes, piume e battute
salaci che non scadono mai, però, nella volgarità banale e
scontata. I tabù vengono affrontati, ribaltati,
perché ci sia un dialogo. Perché non ci si vergogni mai, di nulla,
e soprattutto di se stessi.
Per farci un'idea fresca e veloce di
cosa ci sia dietro questo mondo, possiamo seguire Sara
Perro, giovane giornalista piemontese, nel suo reportage God save the
drag queen, appena uscito in ebook per la casa editrice Zandegù. Sara - che se avesse deciso di mettersi
anche lei piume e parrucche, sarebbe stata Anita Vicì, soprannome
inventato da una delle regine che ha incontrato «sostenendo
che avevo la capacità di infilarmi dappertutto come il noto prodotto
per la pulizia dei gabinetti: l’Anitra WC, appunto» -
si sposta a Viareggio per la finale di Miss Drag Queen Italia e, con lievità e curiosa attenzione, raccoglie storie. Storie
di accettazioni difficili, di emarginazione, di solitudine ma anche
di riscatto e di soddisfazione professionale. Qui
si va al di là dei pregiudizi e degli obsoleti discorsi sul gender e
sull'identità sessuale, si racconta di chi il salto (e non senza
difficoltà) l'ha fatto ed ha il coraggio e l'ironia bastanti a
scherzarci su e a rendersi, al contrario, visibilissimo.
Ma
si riflette anche sul bisogno di riconoscimento, sulla necessità di
fare gruppo e configurarsi in associazioni di categoria: «Drag può
anche voler dire impegno sociale». Fare
la drag queen non è soltanto un modo di (voler) essere, ma anche una
forma d'arte che può salvarti la vita. Quanto mai
lontana dall'idea di “roba da pervertiti” che solo i retrogradi
più imbecilli possono ancora avallare, quella del travestirsi è
un'attività, oltre che divertente, molto utile, non soltanto per chi
la pratica. Implica
il prendersi poco sul serio e allo stesso tempo l'accettarsi,
paradossalmente, per come si è.
«Entrare nel mondo delle drag queen mi ha permesso di conoscere persone interessanti, simpatiche, preparate, con la voglia di divertirsi. Vorrei che dopo aver letto l’ebook venisse la voglia di partecipare a una serata con loro. Di andare a vedere un loro spettacolo. Come di qualsiasi altro artista. Perché è questo ciò che sono e che fanno.»
Mi trovo perfettamente d'accordo con Sara.
Giulia Marziali