Invito alla lettura di I duellanti di Joseph Conrad


I duellanti
di Joseph Conrad,
E/O edizioni, 1994




Conrad pubblicò questo racconto lungo o romanzo breve assieme ad altri cinque nel 1908 con il titolo complessivo A set of six.

Il nocciolo, il centro propulsivo del racconto è il “futile motivo” all’origine del duello, più e prima del duello stesso, dei personaggi e del mondo rappresentato (è Conrad stesso che ci mette sulla buona strada quando dice che trasse ispirazione da un trafiletto di un giornale nel quale si parlava “di due ufficiali della Grande Armata napoleonica «che avevano combattuto una serie di duelli nel bel mezzo di grandi guerre per un futile motivo». Il “futile motivo” (la cui conoscenza accomuna i personaggi duellanti, l’autore e il lettore di contro al resto del mondo rappresentato) è avvolto in una nube di mistero – “la misteriosa offesa” – che lo sottrae ad uno sguardo chiaro e sereno rendendolo inquietante, insondabile e inesprimibile, anche per i duellanti, l’autore e il lettore. Tutta la maestria narrativa di Conrad concorre a questo prodigioso effetto narrativo: è il mondo stesso ad essere incapsulato in un fatum tenebroso (l’aggettivo non è casuale se uno dei romanzi di Conrad s’intitola appunto Cuore di tenebra), inspiegabile, ineluttabile. 

Più Conrad differenzia i tipi psicologici dei personaggi duellanti, più ne estremizza le differenze umane, sociali, caratteriali e comportamentali, più i duellanti appaiono i sosia uno dell’altro; più l’autore separa il mondo dei duellanti dal resto del mondo – con il trattamento del tempo storico, ad esempio, o con l’alternanza bidirezionale di guerra e pace (la pace generale è la guerra tra i duellanti e viceversa) – più è tutto il mondo ad essere avvolto dalla misteriosa oscurità, proprio perché tale oscurità può comprendere tipi umani così diversi e comprende il tempo storico e il tempo individuale. Su tutto aleggia un’atmosfera claustrofobica che coinvolge personaggi, materia narrativa, autore e lettore, pur così diversi tra loro. Ombra, vita, morte, pace, guerra sono il cerchio di parole che costituiscono appunto l’orizzonte claustrofobico del racconto. Il bello e inaspettato finale cambia segno algebrico alla fatalità: dal tragico all’estasi, dalla morte alla vita: comunque sotto il segno di un fato ineluttabile e fuori dal controllo dell’uomo. Il finale offre inoltre una specie di derubricazione del “futile motivo”: da oscuro e misterioso esso diventa quasi un gioco di società: la moglie di D’Hubert sa o non sa i reali motivi dell’interminabile duello? Il senso tragico è sottoposto a un ulteriore spegnimento nell’antieroismo borghese, di cui la pensioncina pagata da D’Hubert al suo ex acerrimo nemico è un’ulteriore sottolineatura.

Soprassiedo sui puntuali riscontri stilistici e strutturali che darebbero sostanza alla mia interpretazione, ma mi soffermo su uno in particolare che dà l’idea dell’atmosfera claustrofobica magistralmente creata da Conrad. Nella scena dell’udienza concessa a D’Hubert dal ministro realista Fouché, l’autore costruisce con rapidi e decisi tratti un’atmosfera tutta giocata sulla penombra, sul vedere e non vedere, sul vedere ciò che dovrebbe restare nascosto, in più i due personaggi dicono cose che non dovranno uscire dalla penombra e dalla segretezza di quella stanza – Fouché quasi si vanta di aver assunto le redini della restaurazione per evitare di esserne la prima vittima; D’Hubert dice di voler spazzare la sua spada da ufficiale a causa dell’umiliazione internazionale della Francia.

Infine due notazioni a latere, ma di non scarso rilievo. 1) Spesso s’è messa in evidenza una certa qual imprecisione lessicale di Conrad, come se lo scrittore non padroneggiasse, con la sicurezza di un madrelingua, l’inglese. In effetti Conrad non è un madrelingua, sennonché – miracoli della letteratura! – propria questa atavica insicurezza è alla base del suo stile spoglio, secco, essenziale, tendenzialmente paratattico – si veda l’inserzione gnomica all’inizio del V capitolo – di grande efficacia narrativa. 2) “L’istinto, naturalmente, è irriflessivo. Lo è per definizione. Ma varrebbe la pena di indagare se negli uomini riflessivi gli impulsi meccanici dell’istinto non siano influenzati dalla maniera abituale di pensare”: questa è la riflessione sapienziale con cui Conrad avvia il finale del racconto e del duello. Il modo con cui esce da un vicolo cieco: perché, avendolo ormai alla sua mercé, D’Hubert risparmia Feraud? Che nel primo decennio del Novecento uno scrittore possa esprimere un pensiero del genere ha del prodigioso. Per quell’epoca, immaginare un “istinto cognitivo” è roba da fantascienza psicologica. Ancor oggi un’idea del genere non è entrata a far parte del comune buon senso o delle medie cognizioni psicologiche; ancor oggi le intuizioni di Bateson o le fini e dettagliate analisi di Nussbaum al riguardo risultano parecchio indigeste; ancor oggi si sarebbe pronti a scommettere che l’istinto è l’istinto, non ha base cognitiva, è irrazionale. E invece già 100 anni fa qualcuno, in virtù di un’intuizione artistica (anzi di una necessità artistica: Conrad deve spiegare la “fatalità” per cui D’Hubert non raccoglie da terra le pistole con cui avrebbe potuto, ormai inutilmente, uccidere Feraud), aveva adombrato risultati scientifici e culturali modernissimi.