La biere du pecheur
Tommaso Landolfied. a cura di Idolina Landolfi
Adelphi, Milano 1999
I Diari di Landolfi sono un trittico di libri che si apre nel 1953 con La bière du pecheur, prosegue nel 1963 con Rien va e si conclude nel 1967 con Des mois. Facile osservare già dai titoli due curiose caratteristiche: non solo si tratta di titoli in francese, ma anche polisenso. E a ben guardare anche la categoria ‘diario’ mal s’adatta sia ai singoli libri sia al loro complesso, si tratta in tutti e tre i casi di una specie di diario… di una specie di romanzo. Ognuno, però, indipendentemente dalla quota parte di diario o divagazione letteraria o saggio di scrittura o arzigogoli vari s’organizza attorno a un tema o una forma di scrittura tutto sommato prevalente e riconoscibile, come se Landolfi abbia assegnato alla forma diario tentativi diversi di trattare i tre temi che vi dominano: la scrittura, il gioco d’azzardo, la vita.
La biere du pecheur vive, si alimenta e si fa leggere grazia a una costitutiva e inebriante contraddizione: il personaggio-scrittore-diarista è impalpabile, un vero, palazzeschiano, uomo di fumo, i personaggi secondari, le vicende, le situazioni evocate riflettono quest’impalpabilità (sono vere, false, minime, drammatiche, costruite a bella posta, debolmente strutturate, ecc.); alla fine l’unica cosa certa, quella che rimane solida come gli oggetti del mondo, più duri del corpo, è la bella scrittura, ovvero l’unica cosa che il personaggio-scrittore-diarista si ostina a condannare con quella vitalità che gli fa difetto per tutto il resto. Parlo di bella scrittura e non di bello stile, perché quest’ultimo è un abbellimento, un qualcosa di esterno alla cosa che si dice, la bella (meravigliosa) scrittura landolfiana appare consustanziale alla cosa, o, se vogliamo essere più prosaici, appare spontanea, disinvolta, naturale (che lo sia o no, che magari sia il frutto di uno spasmodico labor limae ha scarsissima importanza in sede di valutazione critica: in letteratura conta ciò che lo scrittore offre, vero o falso che sia). Che voglia apparire una scrittura consunstanziale ai pensieri del personaggio-scrittore-diarista lo dimostrano le “intrusioni” di voci diverse, lettere o quant’altro, il cui livello stilistico e la cui qualità sono decisamente scadenti (siano davvero voci autentiche “trascritte” dall’autore o siano da esso inventate non cale più di tanto; semmai nel secondo caso sarebbe un’ulteriore testimonianza del talento linguistico e letterario di Landolfi). Una bella scrittura costituita in particolare da una raffinatissima selezione lessicale (non solo in direzione aulica, ma anche popolare o gergale); da inserzioni parentetiche fulminanti; e, infine, con una luminosa chiarezza in aperto e non casuale contrasto con l’oscurità e impalpabilità della materia cui si applica. Alcuni, brevi, specimina: “un terzo personaggio si intrude in queste cartelle” (selezione lessicale - pag. 30); “encarte, égalité (strana fine di una nobile parola, pensò lucidamente Alessandro)" (profondo squarcio parentetico – pag. 80); “orripilanti risate tramesse a convulse invettive” (ricercatissima chiarezza – pag.122). il tutto impastato in una sintassi media, né sciatta né enfatica, né martellante né sinfonica: starei per dire prosodicamente misurata. Bella scrittura e nobiltà di schiatta (cui spesso fa riferimento il personaggio-scrittore-diarista) sono in qualche modo collegate: sono grazie, doni immeritati, dai quali sembra si voglia liberare denunciandoli come inani, inutili, inefficienti, e che pure persistono, riaffiorano continuamente.
Con le lettere di Giulia, Adele e Franca (e non senza la maliziosa indicazione di non considerarle un triangolo) e la situazione definita da Ginevra, Bianca e Anna, Landolfi costruisce due curiosissimi triangoli amorosi: tre donne si contendono un uomo impalpabile, inafferrabile, votato al “principio di irrealtà”. Del resto, verrebbe da dire, l’occhio di Dio è “intruso” in un triangolo. Un personaggio morbido, fluente inappropriato a resistere ai colpi dei corpi solidi, duri, reali.
Se il gatto mi si fosse venuto a fregare contro le gambe, sarebbe forse penetrato nella mia carne, nelle mie ossa (p. 132).
Un personaggio ossessionato, come gran parte dei giocatori maniaci (oggi si direbbe patologici) da un inestinguibile cupio dissolvi. Tensione, anzi anti-tensione, abbandono cui pochi hanno saputo dar voce meglio di Landolfi. E il brano intitolato Lavori forzati incentrato su una nottata al casinò di un personaggio presentato dapprima come immaginario, Alessandro, poi come autobiografico, io, ha una resa narrativa dei pensieri e delle azioni di un giocatore maniaco (patologico) di altissimo livello, paragonabile al modello più alto della letteratura che ha trattato l’argomento, Il giocatore di Dostoevskij (che ovviamente Landolfi non cita mai in questo tassello del trittico e che invece cita ampiamente – ma non quel racconto – negli altri due tasselli). Si tratta d’un personaggio-scrittore-diarista abitato da una bestia che gli “comunica il suo attonimento, la sua impartecipazione, la sua incomprensione della realtà circostante” (p. 34). La bestia ha carattere fisico e gli procura vertigini non solo mentali.
Tutto il libro è percorso dalla sfiducia nei confronti della scrittura, incapace di rappresentare lo scrivente fedelmente o come lui vorrebbe.
Possibile che io non sappia arrivare a una onesta umiltà e che le frasi mi nascano già tronfie dal cervello come Pallade armata dal…ecco ci risiamo? (…) La mia scrittura è falsa: falsi e retorici sono anche in gran parte i sentimenti che io esprimo (p. 115).
Dunque questo primo tassello assume a tema dominante la discrasia tra scrittura e vita: scrivere (e il personaggio-scrittore-diarista non può evitare di scrivere bene – ci proverà esplicitamente in un altro tassello) è di per sé inventare un’altra vita, assecondare la sensazione di inappartenenza, dentro cui il gioco d’azzardo si butta a capofitto come simulacro di una vita pienamente vissuta.
Paolo Mantioni