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Invito alla lettura di Tommaso Landolfi, Rien va

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Tommaso Landolfi
Rien va 
a cura di Idolina Landolfi
Adelphi, Milano 1998

 

      In Rien va Landolfi rinuncia programmaticamente alla bella scrittura. Sembra cioè voler dar vita ad un vero e proprio diario: indicazioni temporali, scrittura poco o punto controllata, fatti e fatterelli della vita comune. Alle speculazioni filosofico-letterarie si aggiungono e si intrecciano la grande novità della vita: la paternità e l’eterno demone del gioco e dell’inappartenenza alla realtà. A tutta prima sembrerebbe un diario meno mistificatorio e meno costruito, e per molti versi lo è, sia pure per scelta “estetica”, un diario in cui i pensieri e i fatti vengono colti in un punto anteriore rispetto alla costruzione stilistica. Landolfi sembrerebbe voler scrivere un diario più immediato e perciò stesso, vista la natura dell’uomo, più crudele; dice espressamente di non voler fare letteratura.
Così al lettore ammirato della Bière, privato della bella e gentile scrittura, verrebbe voglia di farla lui un po’ di letteratura. È come se un vino pregiato versato in un calice e offerto all’ospite (La bière) venisse ora (Rien va) versato sul pavimento. Sennonché come tutti i testi di qualità non comune e non spiccia, anche questo chiede al lettore uno sforzo di acclimatazione, di progressiva intrusione nei suoi meandri. Il padrone di casa ha versato a terra il buon vino non per farci morire di sete, bensì per farci sentire la sua sete.
In Rien va Landolfi tematizza e spiega la distinzione tra scrittura incontrollata, bella scrittura e stile. “Tutto ciò è tanto male scritto (con mia grande gioia, da una parte) (…) Come se lo scriver bene (bene e non elegantemente) fosse un’occupazione oziosa”.

Ma è poi del tutto vero che Landolfi voglia “licenziare” un diario immediato, sincero e crudele? Certo, rinuncia alla bella scrittura; certo, l’espressione di taluni momenti di disperazione e angoscia è più intensa; certo, le tortuose vie speculative hanno maggior corso e minor costrutto; certo, Idolina è nata davvero (iscritta all’anagrafe e, fino alla morte, benemerita curatrice della memoria paterna). Però…l’ostinato silenzio sulla possibile pubblicazione; però…il capoverso finale (o quasi) “Santo cielo, ma che altro faccio qui dentro che parlare di me stesso? Eppure non è vero, non ho neanche questo coraggio. Non ne ho parlato, non ne parlo, forse non giungerò mai a parlarne. «Io» come mio padre «non parlo mai!»”; però…l’inspiegabile silenzio sulla psicoanalisi, proprio nel luogo del testo di massima, crudele e autodenigratoria “sincerità”. Come che sia, è necessario e giusto lasciare inevasa la domanda, forse è il caso di rifarsi a quanto lo stesso Landolfi dice: l’idea, il testo aspetta “il contenuto da una particolare forma” (pag. 128); o ancora più precipuamente: “forse la sincerità non è che una forma dell’ordine letterario e i sentimenti, il pensiero, non si attua che esteticamente; che non sarebbe poi peregrino” (pag. 33).

Riprendo dall’inspiegabile assenza d’ogni accenno alla psicoanalisi, che sarebbe anche meritoria, volendo, ma nell’episodio riferito alle pagg. 134-136 che “gridano” l’angoscia per aver pensato per un attimo che “la sua morte [della neonata] sarebbe stata per alcuni e forse molti riguardi benefica”, lo scrittore annaspa alla ricerca di una spiegazione razionale o sentimentale che ovviamente non c’è. La spiegazione può essere solo psicoanalitica, ma, difficile a credersi, Landolfi se ne mostra completamente a digiuno. Un uomo colto, socialmente integrato, checché ne dica lui stesso, completamente a digiuno di psicoanalisi nel 1960? Davvero un bel mistero! Un silenzio che è della stessa natura di quello su Dostoevskij in relazione al gioco, tanto più “parlante” in quanto in Rien va lo scrittore russo è frequentemente citato.

Letteratura (arte), filosofia, società (poca e di malavoglia), gioco, vita: sono questi i temi del diario, trattati senz’ordine e in maniera sistematicamente asistematica. Cogliamo qua e là.

Landolfi pone e si pone il problema della relazione tra idea e arte, il problema del passaggio dall’astrazione intellettuale al manufatto artistico. Il problema, cioè, che Proust ha risolto, secondo Merleau-Ponty, con la realizzazione dell’idea sensibile, e, all’atto pratico, con la metafora. E, senza pensare a Proust o a Merleau-Ponty, Landolfi ne offre subito, artisticamente, ovvero senza premettere o far seguire l’idea astratta, un esempio: riferendosi alla nascita della bambina e ai suoi effetti su di lui scrive: “questa mattina mi sono svegliato col senso di un tesoro, come quando destandosi ci si dice: oggi ho i quattrini da giocare” (pag. 27), un lettore-giocatore è avvantaggiato, di certo, ma anche un lettore comune può facilmente intendere qual è l’idea astratta cui Landolfi ha fornito un corpo.

Ho già accennato, a proposito de La bière du pecheur, all’implicito legame tra bella scrittura e nobiltà di schiatta (doni immeritati): in Rien va si irrigidisce il carattere nobiliare dello scrittore e si rende molle la qualità della scrittura. Il tema del rapporto nobiltà/scrittura ha addentellati, forse secondari, con la concezione landolfiana della letteratura, della vita e del gioco. Scrive Landolfi: “donde per avventura che la buona volontà dei sacri scritti è già grazia in atto, o che la grazia da acquistare è premio di quella in atto. (…) E la solita condizione che le più nobili religioni non sanno spezzare: che lodato, riconosciuto, premiato da Dio stesso sia solo ciò che abbiamo non per nostro merito, ciò che egli stesso ci ha dato: che, implicitamente, sia vano ogni nostro sforzo, di acquisto, di riforma, di creazione, di miglioramento appena” (pag. 76). E la grazia, che le opere non possono impetrare perché elettiva, determinata dai decreti imperscrutabili di Dio, quindi per noi sostanzialmente casuale, la grazia, dicevo, è un dono, come la nobiltà di schiatta o la bella scrittura, un dono che può essere sentito anche come peso, come ostacolo all’azione (quante volte Landolfi scrive di essere incapace all’azione!), eppure più o meno inconsapevolmente se cerca di spogliarsi di una, la bella scrittura, lo scrittore rafforza l’altra, la nobiltà. Con il gioco, inoltre, in specie se “maniaco” (patologico), si sfida il giudizio ordalico (indipendente ciò dal merito o dalla questione specifica oggetto del giudizio stesso, bensì trasportato su un piano d’ordine superiore): si chiede al proprio Dio, si chiede alla sorte: sono o non sono un eletto.

In Rien va (come del resto nella Bière du pecheur) vi è un significativa attenzione a forme di vita “idiote”, primeve: piante, animali e, ora, alla neonata, e alle loro forma di comunicazione. In essi lo scrittore cerca di scrutare la scaturigine primordiale della vita, una sorta di grado zero, proprio come, rinunciando alla bella scrittura, va alla ricerca del punto di congiungimento tra pensiero e parola.

Al di là dei valori e della qualità letteraria Rien va è anche (e, per volti versi, soprattutto) il diario di un giocatore “maniaco”, in cui rispetto a La bière questa componente della vita di Landolfi ha un’espressione meno mediata e letteraria. Letto oggi alla luce dell’attuale letteratura scientifica e sociale sul tema c’è da dire che lo stato dello scrittore era piuttosto grave. “Ecco a buon conto con quali chiacchiere io mi stordisco – quando non ho quattrini” (pag. 58). Un giocatore colto e intelligente che sente la necessità di sottrarre il gioco al paradigma morale, ma non riesce a farlo perché non ha neanche gli strumenti scientifici o sociali per riuscirvi; un giocatore che non riesce a intravvedere con chiarezza un piacere sostitutivo o concorrente a quello del gioco, di cui pure capisce il binomio micidiale che lo costituisce: onnipotenza e ottundimento; un giocatore che descrive lucidamente le gravi crisi di astinenza e che ne dà una definizione metaforica di grande efficacia: “può darsi che lei sappia [la neonata che smania prima della poppata] fin d’ora che le sarà per così dire inutile aver poppato e voglia annegarsi nel disperato, immediato piacere di quel succiamento, prima (se fosse possibile) che il dubbio, la certezza, le divengano evidenti, prima (se fosse possibile) che quel nutrimento le appaia equivoco, amaro, bugiardo! (…) che stupidaggine questa trasposizione” (pag. 61). Un giocatore che tanto spesso si fa sfuggire per dimenticanza, ma si tratta d’altro come lui stesso s’avvede (“e io non dovessi interpretare queste dimenticanze quali un segno profondo, forse per metà buono” (pag. 78) parole adatte o “risolutive”, o addirittura intere trame di pensieri o romanzi (“avevo finalmente immaginato una trama (…) …e l’ho dimenticata” (pag. 77) per non riconoscere al di fuori del gioco il piacere, l’affermazione di sé, la tensione all’oggetto (impulso oggettuale), il proprio stesso valore come persona, e ancora una volta volgersi verso quel cupio dissolvi che è il termine ultimo del giocatore patologico: risarcimento narcisistico o autopunizione a seconda della traccia psichica depositata ab ovo.

L’intelligenza e la lucida consapevolezza di quella che allora si chiamava ‘mania’ o ‘vizio’e che oggi è riconosciuta come una vera e propria malattia, gli fa scrivere “va bene, non gioco: e che altro mi si propone? (…) Io, almeno, ho sempre voluto salvarmi da una mediocrità borghese” (pag. 116) Forse il menomo vantaggio di questa sgradevole esperienza, della sensazione di inappartenenza, dell’ennui, del ripiegamento narcisistico sta nel fatto che rimane la possibilità di volgersi altrove con la spregiudicatezza dei sopravvissuti. Landolfi è ossessionato dal gioco e dalla letteratura, perché primieramente ossessionato dalla non-vita, come non potesse (e in effetti non si può) conciliare le tre cose; come si escludessero “tricendevolmente” (faccio un po’ il Landolfi).

Insomma in Rien va il tema dominante è il gioco d’azzardo nei suoi rapporti con la letteratura (che si dà con troppo abbondanza) e la vita (che continua a negarsi). 

Paolo Mantioni


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