La verità sul caso Harry Quebert
di Joël Dicker
Bompiani, Milano 2013
Traduzione di V. Vega
pp. 779
€ 19.50
Parto dalla fine: si tratta
innegabilmente di un bel romanzo. E parto dalla fine e dal giudizio
sommario perché più volte durante la lettura del romanzo mi sono
sorpreso a metterne in dubbio le qualità letterarie,
salvaguardandone sempre quelle d’intrattenimento. Questo è un
romanzo che ha avuto un successo strepitoso, certificato non solo
dalle copie vendute (che sarebbe come dire che i Macdonald's sono
ristoranti di qualità – faccio mia un’arguta battuta di
Andrea Cortellessa), ma soprattutto da giudizi entusiasti di lettori
importanti, non ultimi i due riportati in quarta di copertina
(Fumaroli e Pivot). Perciò ero molto curioso di leggerlo e, magari,
più o meno inconsapevolmente, di confrontarlo con 1Q84 di
Murakami, nella speranza di confermare di nuovo la rara combinazione
di grande successo editoriale e grande letteratura; sotto questo
punto di vista, però, il romanzo di Dicker non è allo stesso
livello di quello di Murakami.
Contrariamente alle mie
abitudini e alle mie convinzioni (che, cioè, per parlare d’un
libro non è necessario parlare di altri libri) prendo le mosse da
due libri che il romanzo di Dicker mi hanno costantemente richiamato
alla memoria (e che credo anche lui avesse in memoria). Lolita
di Nabokov e A
sangue freddo di
Capote. Due capolavori, come si vede, per altro, press’a poco
coevi. Due capolavori diversissimi fra loro, forse addirittura agli
antipodi sul piano della forma (molto meno sul piano della materia
narrata): da un lato la raffinatezza e la maestria stilistiche, la
ricercatissima profondità letteraria, una strutturazione complessa e
virtuosistica; dall’altro la sobrietà, la penna trattenuta allo
stremo, la pura e cruda registrazione degli eventi, lo sguardo
orizzontale sui personaggi, il paesaggio naturale, urbanistico e
sociale entro cui si svolgono gli eventi stessi. Entro questi due
poli stilistici opposti che si potrebbero sinteticamente definire
estetismo e realismo (nel caso specifico, il meglio dell’uno e
dell’altro e, beninteso, sempre nei limiti di convenzioni
letterarie) dove si situa il Quebert
di Dicker? Lontano da entrambi. Infatti le analogie riguardano la
materia narrata, non lo stile o la costruzione: per Lolita,
ad esempio,
l’amore tra un uomo adulto e un’adolescente e, a livello
microstrutturale, l’insistenza sull’ipocoristico nomignolo della
ragazza; per A
sangue freddo
lo scrittore famoso e della grande metropoli, New York, che va ad
indagare nella provincia dell’America profonda. E una delle
caratteristiche di questo romanzo è proprio una sorta di
indifferenziazione stilistica, non che, si capisce, sia scritto male,
ma si regge su uno stile medio, affabile, non particolarmente
ricercato, insomma non è per quello che vuole farsi leggere. Si
vuole far leggere da un lato inoculando continui colpi di scena nella
materia narrata (e da questo punto di vista è un poliziesco di
grandissimo livello) e dall’altro inventando una cornice (e una
sottocornice, meno esplicita) astratta e al tempo stesso confitta
nella materia narrativa: insomma, in soldoni, Quebert
vuole farsi leggere mantenendo sempre all’erta l’attenzione del
lettore, invitandolo continuamente ad andare avanti, promettendogli e
esaudendo le promesse di imperdibili novità. Un grande libro di
intrattenimento, insomma, ma la letteratura? Murakami ha scritto un
grande libro di letteratura coinvolgendo l’intrattenimento, Dicker
scrive un grande libro di intrattenimento, giocando un po’ e forse
prendendo benevolmente un po’ in giro la letteratura, con quella
cornice che è una specie di corso di scrittura creativa non tecnico,
bensì sentimental-teorico. Certo, ora mi toccherebbe spiegare che
differenza c’è tra intrattenimento e letteratura: mi ci proverò,
premettendo che uno dei meriti di questo romanzo è anche quello di
stimolare interrogativi di questo tipo. Mi ci proverò non
affrontando di petto la questione, bensì prendendola un po’ alla
larga, girandole intorno, sbirciandola in obliquo. Magari divagando
un po’ su alcune caratteristiche formali di questo romanzo. Il
punto di vista innanzitutto e i tempi narrati e il tempo narrativo.
Questo romanzo si fonda su una vera e propria farandola di modalità
narrative: punti di vista diversi (i due personaggi principali, ma
non solo), prima o terza persona, diari, lettere, estratti da…,
referti di…, verbali di…, ecc.; il tutto ulteriormente variato
dall’alternanza dei tempi narrati: tempo dei fatti criminosi, tempo
della gioventù del protagonista, tempo dell’indagine e della
scrittura del libro, passato di vari altri personaggi, in un arco
cronologico che va dagli anni cinquanta al 2008. Alla fine si tratta
di una vera e propria tempesta di modalità narrative dove, però,
scrittore e lettore sono proprio nell’occhio del ciclone, immobili.
Voglio dire, cioè, che questa grande varietà serve solo a far
andare avanti la vicenda narrata, le complicazioni, gli incastri, il
gioco delle scatole cinesi serve solo a tener desta l’attenzione
del lettore, non sono funzionali, non incarnano un modo diverso di
vedere il mondo, non caratterizzano questo o quel personaggio, non
offrono una chiave inedita e non comune con cui scardinare il libro o
il mondo. Grande, legittimo, intrattenimento, ma poco o punto
letteratura. In più punti si ha la sensazione che la plausibilità
realistica del romanzo sia stiracchiata (un po’ troppi
intrufolamenti indebiti nelle case altrui, ad esempio), in
particolare in uno dei passaggi meno riusciti, anzi francamente
insulso, ovvero il dialogo tra Robert Quinn e Travis Dawn (pag. 290 e
segg) sembra quasi che pur di far procedere la vicenda narrata si
possa fare a meno della coerenza dei personaggi: Robert, fino a lì
una specie di mentecatto in balia dell’energica moglie,
d’improvviso diventa sicuro di sé e dà consigli infallibili a
quell’altro imbranato di Travis. Questo per dire che il mondo reale
nei romanzi di intrattenimento esiste e si ordina in funzione del
romanzo (e i contrasti tra realtà e romanzo erano stati risolti in
ben altro modo in Murakami!). In letteratura è il romanzo ad
esistere e ordinarsi in funzione del mondo, quand’anche fosse un
mondo creato ex-novo,
non necessariamente sovrapponibile al mondo considerato reale, ma
coerente, rigoroso, infrangibile e che non può essere stiracchiato
per fare più bello il romanzo. Ecco forse una bella differenza tra
letteratura e intrattenimento: la coerenza interna. Se accetto il
mondo reale come contesto del romanzo e voglio fare letteratura devo
risolvere in maniera creativa gli eventuali contrasti tra l’uno e
l’altro, le eventuali battute d’arresto che il mondo infligge al
romanzo, magari posso farle diventare proprio il tema del romanzo,
della sua impossibilità (penso alla “necessaria” incompiutezza
dei romanzi di Kafka o, al contrario, al bruttissimo finale di xy
di Veronesi). Il contesto del romanzo (mondo reale o creato ex-novo)
deve poi poter essere immerso nel più vasto mondo che comprende
scrittore e lettore e “fare le bollicine”, “friggere”, “farsi
largo”, deve insomma fare del e nel mondo più vasto qualcosa che
senza letteratura o arte non può essere fatto: non tanto cambiarlo
(uh, che pretese! Ha ragione Quebert personaggio) quanto cambiarne la
percezione che se ne ha, comunicare un modo fino ad allora
inesplorato di starci.