Le piace Bowie? Il Duca Bianco dalla A alla Z

Bowie. Le canzoni, gli album, i concerti, i video, i film, la vita: l'enciclopedia definitiva
di Nicholas Pegg
Arcana, Roma 2012

Traduzione italiana di Claudio Mapelli, Maurizio Musi e Ada Arduini

pp. 671
39,50 euro



Parlare di Bowie è come guardare un treno in corsa mentre si è fermi al passaggio a livello. Lo si vede correre, magari ne distinguiamo la forma, ma cosa possiamo dire dei passeggeri? Chi sono? Dove stanno andando? Anche se ci sporgiamo sul cruscotto per accostarci al vetro, chiusi al caldo nella nostra auto, al di là della sbarra che ci trattiene dai binari non intravediamo che delle ombre. È all’incirca questa la sensazione che si prova davanti agli oltre cinquant’anni di carriera del Duca Bianco. Un treno in viaggio che attraversa senza sosta diverse località e ferma sempre e solo dove vuole lui, in posti segreti e lontani dagli occhi dei fan. E ogni volta per caricare passeggeri nuovi, di cui poco o nulla è lecito sapere. Ci pensa però Nicholas Pegg a rallentare un poco la corsa di quel treno, permettendoci di gettare dentro un’occhiata attraverso un finestrino, appena il tempo per leggere i tratti di qualche volto. E lo fa in un’enorme opera dedicata a David Bowie (diffusa in Italia da Arcana), scritta nell’unico approccio possibile dinnanzi a un mondo così vasto: l’enciclopedia.
Si tratta di una vera e propria opera omnia, divisa in sezioni che si prefiggono di coprire il più possibile l’universo Bowie: le canzoni, gli album, i concerti dal vivo e le sue performance di attore, scrittore e artista a tutto tondo. Una miniera di informazioni e aneddoti per conoscere come sono nati i suoi album e quali furono le maggiori influenze dietro alle sue canzoni. Così scopriamo che il funky di Fame è il frutto della collaborazione con John Lennon, che suonò la chitarra acustica e il piano durante la registrazione. E veniamo a sapere che spesso in America gli capita, quando suona The man who sold the world ai concerti, di esser avvicinato da
«un sacco di ragazzini che poi vengono a dirmi, “Che figo! Suoni una canzone dei Nirvana”. E io penso, “Andate a farvi fottere, piccoli segaioli!”». (p. 152)
Nicholas Pegg ha qualcosa da aggiungere anche all’esegesi di pezzi celeberrimi, su cui tanto è già stato detto. La voce dedicata all’immortale “Heroes” va oltre l’episodio riguardante la giovane coppia di innamorati che si scambia effusioni nei pressi del muro di Berlino, scena che Bowie ha veduto dalla finestra degli Hansa Studios e che gli ha dato l’idea per il brano. Pegg spiega che in realtà 
“Heroes” non è affatto lo spensierato inno per cui è stato spesso scambiato. Il titolo del brano, come quello dell’album col quale condivide il nome, è messo tra virgolette per sottolineare quella che Bowie definiva “una dimensione ironica” e, nonostante l’apparente serenità con cui innalza la sua sequenza di accordi e il delirante abbandono della voce, “Heroes” ha sicuramente il suo lato oscuro. (p. 96)
L’enciclopedia dà prova delle infinite collaborazioni che hanno interessato Bowie. Per citarne una tra tante, quella con lo scomparso Lou Reed. Transformer, il secondo album da solista di Reed, venne coprodotto proprio da Bowie. La canzone Satellite of love, che sarebbe dovuta entrare in Loaded dei Velvet Underground, è stata poi rielaborata per questo album dove è Bowie a cantarne la voce di accompagnamento.
Sfogliare il libro di Pegg chiarisce un poco le costellazioni di opere e avvenimenti che hanno suggestionato le sue creazioni, spingendosi al di là delle influenze prettamente musicali. Si pensi al ruolo che il regista Stanley Kubrick ha avuto nelle sue opere tra gli anni Sessanta e Settanta. Bowie rimase profondamente colpito da 2001: A Space Odyssey, tanto da suggerirgli il viaggio del Major Tom raccontato nella canzone Space Oddity, evidentemente influenzata dal film già a partire dal gioco di parole nel titolo: da odyssey a odd ditty, “strana canzoncina” (p. 219 e ss.). Da Kubrick, Bowie ha tratto ispirazione anche per la messa in scena del tour The Ziggy Stardust, svoltosi nel Regno Unito nel 1972: in apertura ha voluto lo stesso arrangiamento dell’Inno alla gioia che si ascolta nel film durante il lavaggio del cervello di Alex, e i costumi indossati dai musicisti sono ricalcati sui drughi di Arancia Meccanica.
«[...] volevo riprodurre la durezza e la violenza di quegli abiti, come i pantaloni infilati negli anfibi e le conchiglie, ma ammorbidirla usando dei tessuti assolutamente ridicoli. Era un’idea dada: violenza estrema, ma in tessuti liberty.» (p. 452)
Emergono anche interessanti influenze dal mondo letterario. Nella sezione dedicata agli album, si legge che in Diamond dogs sono confluite innumerevoli intuizioni tratte dal romanzo 1984 di George Orwell. Ma questo accadde soltanto dopo aver tentato – invano –  di realizzare una produzione televisiva ispirata al libro, bloccata sul nascere da una ferma opposizione della vedova Orwell.
Alla fine del 1973 la vedova di George Orwell, Sonia, negò il permesso per il progetto 1984. Imperterrito, David convogliò il suo rinnovato entusiasmo in una creazione interamente propria: il desolato paesaggio urbano di Hunger City, nel quale le sue composizione orwelliane avrebbero costituito la base dell’incubo post-apocalittico di Diamond dogs. (p. 314)
Non deve stupire l’interesse di Bowie per il cinema e la tv: è sufficiente sfogliare la sezione dedicata alla sua carriera di attore per rendersi conto che sono stati parecchi i ruoli da lui interpretati, anche in produzioni diventate cult come Twin Peaks di David Lynch: in pochi sanno che nel 1991 Bowie compare, in un cammeo di due minuti, in Twin Peaks: fire walk with me, una sorta di prequel (p. 575).
Un libro, questo di Pegg, che desta interesse soprattutto per quel che non ti aspetti di trovare, come la sezione dedicata a Bowie “L’artista e lo scrittore”. Bowie scrisse diverse cose e divenne persino editore negli anni Novanta: aprì una casa editrice dedita al mondo dell’arte, la cui prima pubblicazione fu un testo di Matthew Collings sull’arte londinese. Proprio in veste di editore partecipò alla truffa di Nat Tate, l’ingegnosa beffa su un presunto artista suicida che fu inventato di sana pianta, dalla biografia sino allo stesso nome (ottenuto ricalcando l’inizio delle due principali gallerie londinesi: la National e la Tate). Bowie e altri idearono un portfolio di opere e gli dedicarono una costosa monografia.
In occasione della presentazione ufficiale, numerosi rispettati critici d’arte si arrampicarono sugli specchi sforzandosi di commentare la vita e le opere di Nat Tate come se lo conoscessero da sempre. [...] Nat Tate non era semplicemente una sorta di “pesce d’aprile”, ma una mordace denuncia della fragile rete di reputazione e credibilità che tiene insieme il mondo dell’arte. (p. 589)
Un libro dunque che vale la pena di spulciare con attenzione, fino alla fine. Anche nell’atmosfera asettica della cronologia conclusiva, scorrendo la mera elencazione, si trovano sfiziosi avvenimenti.
Novembre 1964, 12
David viene intervistato in Tv per la prima volta da Tonight della BBC in qualità di portavoce della “Società Per La Prevenzione Delle Crudeltà Nei Confronti Dei Capelloni”. (p. 605)
Non resta che aspettare per vedere cos’altro Bowie ci riserverà in futuro. E intanto, in attesa che quel treno istrionico ci ripassi davanti un’altra volta, abbiamo queste seicento e più pagine a tenerci compagnia. 

Manuela Cortesi