di Jhumpa Lahiri
Guanda, 2015
pp. 156
€ 14 (cartaceo)
"May I help you?". Quattro parole garbate che, ogni tanto in Italia, mi spezzano il cuore. (p. 108)
Benché Jhumpa Lahiri si senta «un'ospite, una viaggiatrice», o addirittura «un'intrusa, un'impostora» (p. 69) quando scrive in italiano, In altre parole è il suo primo libro scritto direttamente in lingua, che bene costruisce la storia di un innamoramento senza precedenti. Per questo, i vari capitoli (in parte editi precedentemente su «Internazionale), se riuniti, costituiscono la trama più ampia e imprevedibile di questa «smania indiscreta, assurda. Una tensione squisita. Un colpo di fulmine» (p. 23) per l'italiano.
Jhumpa Lahiri, già nota scrittrice di origine bengalese e cresciuta a New York, sa bene e sottolinea in ogni pagina l'importanza della lingua: prima ancora della comunicazione, per creare l'identità del singolo («Quando si vive in un Paese in cui la propria lingua è considerata straniera, si può provare un senso di smarrimento continuo», pp. 25-26). Dunque, da una sorta di «disperazione» e di anelito continuo al miglioramento di sé, nonché per colmare un abisso sempre percepito, Jhumpa cede al fascino della lingua italiana e desidera "frequentarla", proprio come se si trattasse di una persona. Sa bene che la strada è complessa e irta di difficoltà, né basteranno ripetizioni con madrelingua. Allora sceglie di immergersi nella vita di Roma e di affrontare le incertezze e i timori di parlare nel nostro idioma. Per lei è ora di scavare, o anzi sondare, la lingua italiana nelle sue peculiarità:
«Le parole sconosciute rappresentano un abisso vertiginoso, fecondo. Un abisso che contiene tutto ciò che mi sfugge, tutto il possibile» (p. 44).
La frequentazione della lingua è fondamentale, Jhumpa lo sa bene:
«Una lingua straniera è un muscolo gracile, schizzinoso. Se non lo si usa, s'indebolisce. Il mio italiano, in America, mi suona stonato, trapiantato» (p. 96).
Per l'autrice una lingua è sempre profondamente legata al territorio e alla sua letteratura, e quindi va scoperta in tutti i modi, senza requie, ma con la dedizione che rivolgeremmo a un secondogenito che ha bisogno di noi, perché più incerto eppure bellissimo. Questa è solo una delle tante metafore che Jhumpa offre a noi lettori italiani per comprendere fino in fondo le difficoltà di un'apprendente L2 (cioè italiano come lingua straniera), per noi che diamo per scontati gli usi figurati e le accezioni comuni, nonché gli impieghi quotidiani.
È con questa fame (insaziabile perché mai completamente appagata) di nuove parole che la scrittrice si mette in gioco completamente, pur ammettendo la fragilità di una sfida tanto incomprensibile per chi non è al suo posto e continuerà a chiederle "Perché?", a cominciare dal marito.
A un certo punto, in una biblioteca di Roma, appare il desiderio più grande: scrivere un racconto direttamente un italiano, perché in inglese non avrebbe avuto lo stesso sapore. Allora Jhumpa rischia, anche si definisce «una scrittrice inconsapevole, consapevole solo di essere camuffata», o ancora «una bambina che si intrufola nell'armadio della madre per mettersi le scarpe coi tacchi» prima del tempo (p. 132). La difficoltà maggiore è quella delle scelte lessicali: le sfumature dell'italiano rendono quasi impossibile cogliere il sinonimo corretto, il termine più adatto al contesto che non sia troppo aulico o, al contrario, colloquiale.
Insomma, sembra un cammino da cui non uscire, quasi un labirinto che gira in tondo e riporta a una drammatica costante: sei straniera e non ti confonderai mai né per fisionomia né per pronuncia né per competenza a un nativo. Eppure, vorremmo dire all'autrice, quest'opera con il suo stile apparentemente semplice, ha il potere di comunicare vividamente un afflato che tanti di noi non avrebbero perché nascosti dietro il paravento delle sinonimie. Invece, Jhumpa Lahiri racconta con uno stile personale, paratattico ma profondamente coeso, l'italiano come noi non sapremmo fare: con la scoperta di chi è ancora a un passo di distanza, e tende la mano.
GMGhioni