#Scrittori in ascolto – con Nicola Lagioia



Nicola Lagioia, pugliese, uno dei protagonisti di qualità della narrativa italiana contemporanea, è scrittore e si occupa di scrittori visto che dirige la collana “Nichel” per Minimum Fax, voce di “Pagina3”, la rassegna stampa culturale di Radio3, tra i selezionatori dei film per la mostra del cinema di Venezia. Nicola, ci siamo conosciuti su un social, prima che dal vivo, capita frequentemente, e mi ha colpito una tua affermazione: oggi, per spiegare la realtà, dunque anche noi che la abitiamo, è più utile ricorrere all’etologia che non alla sociologia. Cosa intendi dire?
«Mi pare che il XXI secolo si sia aperto con una regressione allo stato di natura. È un mio timore, non certo un auspicio. Ricordate il 1989? Sono passati 25 anni. La caduta del muro di Berlino aveva fatto parlare alcuni di “era dell’acquario” prossima ventura con bellezza e pace universale. D’altronde, Francis Fukuyama si era esercitato sulla “fine della storia”. Bene, a soli 4 anni dalla caduta del muro, nei Balcani riapparivano i lager, era già un segnale significativo. Poi è arrivato il XXI secolo, per il quale non abbiamo dovuto aspettare perché “cominciasse”, come per il Novecento, i 14 anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, ovvero la fine di ogni utopia progressiva e positivista. Il XXI secolo è partito immediatamente. E con una deflagrazione: l’11 settembre 2001. Da quella data si sono sommate una serie di situazioni di tensione e di guerra in ogni angolo del pianeta mentre la forbice, il divario esistente fra chi detiene la ricchezza e chi ne è escluso, a livello globale e di ogni singolo paese, si è accresciuta. Per descrivere questo quadro credo sia adatto ricorrere alla legge ferrea di uno stato di natura, a una metafora etologica: il pesce grande mangia il pesce più piccolo. Non è un caso che nel romanzo appaiano molti animali. Un gatto principalmente, che ha pure un suo ruolo decisivo nella vicenda e che partecipa a uno scontro terribile con un ratto, per la sopravvivenza. Perché questo è».

Tu sei uno scrittore del sud, un intellettuale meridionale, e do a questa locuzione un significato alto che va da Filangieri a Salvemini, e agli scrittori del sud è stato chiesto di raccontare la Puglia, la Sicilia, la Campania quasi assegnando uno scopo: redimere le vostre terre e condurle sulla strada del progresso democratico ed economico. Mi pare di capire, leggendo alcune tue interviste, che su questo hai qualcosa di ridire.
«Certo: il rapporto tra tempo e letteratura in genere è molto complesso. Mi piace citare un esempio di evidenza disarmante: qual era il paese tra le due guerre mondiali culturalmente più avanzato d’Europa? La repubblica di Weimar. Il cinema di Murnau e Lang, il teatro di Brecht, la poesia di Gottfried Benn, il movimento architettonico del Bauhaus, in campo musicale Arnold Schoenberg e Kurt Weill, i fratelli Mann in ambito letterario. Bene, il fatto che sia di quegli anni “La montagna incantata” di Thomas non ha impedito l’avvento del terzo reich. Un romanzo famosissimo, poi, come “Cent’anni di solitudine” può essere interpretato in un’ottica marxista ma al tempo stesso ha dei forti connotati reazionari. Come non vederne nei Buendia? Da Gomorra in poi per gli scrittori meridionali si è profilato un mandato da pubblici ministeri investiti di poteri speciali per sconfiggere la criminalità organizzata. Oppure, potremmo dire, per fare la rivoluzione. Di queste cose se ne devono occupare altri ambiti, la politica per esempio. La letteratura è al tempo stesso meno ambiziosa e più ambiziosa. Meno ambiziosa perché scrivere un libro sta alcuni toni sotto rispetto alla presa del palazzo d’inverno. Tuttavia la maggiore ambizione della letteratura è nel coltivare, nel perpetuare, la terra di nessuno dell’ambiguità dove le persone possano riconoscersi e salvaguardare ciò che resta di umano, utile a sconfiggere la ferocia».

Veniamo allora a “La ferocia”, questa storia che si appiccica addosso fin dalla prima scena quando in una calda notte di primavera, una giovane donna cammina nel centro esatto della strada provinciale. È nuda e coperta di sangue. Si scoprirà che è figlia di un magnate della zona, Vittorio Salvemini. Che nulla c’entra con il Salvemini prima citato. Partendo da Vittorio Salvemini e da questo incipit a chi finisce per appartenere la ferocia?
«Non nego che ho voluto giocare con questo cognome, appartenente a una delle più grandi figure morali, politiche e storico-filosofiche della storia italiana: Gaetano Salvemini, peraltro pugliese pure lui. Ho preso a prestito il cognome per assegnarlo a una famiglia di pescecani, che vive nel potere e per il potere. Vittorio Salvemini trasmette tale sistema all’intera famiglia, non è neppure il personaggio più abietto del libro, secondo me, tuttavia è il soggetto attorno al quale ruotano le “negatività” della trama. In genere, succede che in queste famiglie nascano persone che deragliano nutrendo un sentire alternativo, sostenuto magari da complessi, frustrazioni, instabilità. I due Salvemini che deragliano sono Clara, la donna della scena iniziale, e il fratellastro Michele. Michele è il reietto, colui che il padre vede e vive con il senso di colpa del tradimento. A un certo punto della loro vita, fra Clara e Michele, che non sono a loro volta degli stinchi di santo, nasce un’unione morbosa, “incestuosa”, che li condizionerà moltissimo. Così quando Clara muore, lo dico tranquillamente perché tanto accade a pagina 7 e mi auguro che almeno lì i lettori arrivino, Michele comincerà a indagare su questo decesso, che passa ufficialmente come suicidio ma non è chiaro. Intanto soffermiamoci sulla strada dove si trova Clara: è la famigerata statale 100 Bari-Taranto, una strada lynchiana che non porta in Magna Grecia ma a Blade Runner. Perché Taranto evoca più Ridley Scott che Sofocle. A partire da questo flash violento, nel libro la ferocia si espande e accumula proprio perché il potere è feroce, la sua lingua è feroce, è l’idioma che meglio esprime la regressione a uno stato di natura e che ti condiziona a tal punto che “sei parlato” dalla lingua del potere. Clara e Michele provano a sintonizzarsi, almeno fra loro, su altre frequenze. È qui, sempre secondo me, che si consolida quella terra di nessuno a cui prima accennavo. Una terra che diventa appannaggio dell’uomo e dove può perfino resistere il libero arbitrio».

Nel tuo romanzo ci immergi in un malessere paludoso, perverso, con una tenace perseveranza che porta il lettore a un “positivo fastidio”. Personalmente, in mezzo a tutti questi atomi di ferocia schizzati ovunque, ho provato irritazione per la collera risoluta del “buono”, Michele.
«Questo mi fa piacere. Quando un libro è pubblicato la parola passa ai lettori e fra questi mi colloco pure io: dinanzi a ciò che ho scritto interpreto i personaggi, gli snodi della trama. Ecco l’ambiguità della letteratura: non possiamo essere manichei quando scriviamo, il bene da una parte e il male dall’altra. Questo distinguo è tipico del ruolo dell’intellettuale: se a me una rivista, un giornale, chiedono di prendere posizione su un tema, un personaggio politico, evidenzierò da quale parte mi colloco. Perché le idee è giusto che cozzino. Ma se a quel politico mi ispiro per un personaggio letterario, esso diventa uno a cui mi lego con empatia. E lo tratto complessivamente in ogni sua zona grigia anche se non sono un professionista della politica. Perché è il tratto umano che mi interessa. D’altronde, non bisogna basarsi soltanto sulle esperienze personali. Altrimenti toglieremmo fiato a tutta la letteratura fantastica, da Borges a Calvino all’OuLiPo, e arriveremmo al paradosso che potrebbe scrivere di assassinii chi ha compiuto un omicidio. Vittorio Salvemini, il “cattivo”, è tuttavia un concentrato di elementi contraddittori, comprese debolezze e vigliaccherie che sono inevitabilmente le nostre, di ogni persona. Michele Salvemini, il “buono”, idem, lascia filtrare tante opposizioni. Per cui, rientra nel gioco che sia proprio Michele a suscitarti questo genere di reazione».

Tu scrivi: «Michele non cercava la verità. Qualcosa di più sottile. La nera membrana di celluloide dentro cui è imprigionato un fantasma che scompare in fase di sviluppo. Neanche la menzogna, ma un gesto. Qualcosa che spezzasse la catena dei significati, così che la sete di verità non fosse mai nemmeno nata». Dicci di questa frase, che pare un rincorrersi di spettri.
«Torniamo alla morte di Clara: suicidio o no? Michele non cerca tanto la verità o la giustizia sulla sorellastra, bensì un gesto retroattivo che lo riporti a un punto zero e dove sia trascinata l’intera famiglia. Questo perché la morbosità del rapporto porta Michele a sentirsi guidato da Clara. Guidato perché ossessionato. È Clara il primo spettro di un mondo di fantasmi».

Poi c’è questa natura dove la vicenda viene collocata: a volte maligna, perché così l’ha resa l’uomo, comunque gelida, anche se siamo in Puglia, come il tavolo delle stanze dove si effettuano le autopsie. Come mai una natura così?
«Ricordo che alcuni anni fa uscirono due film: “Into the Wild” scritto e diretto da Sean Penn e “Grizzly Man” di Werner Herzog. Il primo è piuttosto conosciuto. Il secondo molto meno: il regista tedesco narra l’esperienza di un esploratore ambientalista che per alcuni anni vive insieme agli orsi grizzly e si convince di essere diventato loro amico. Finché nell’ottobre del 2003 viene ucciso da un plantigrado e in questa aggressione letale è coinvolta anche la fidanzata. La natura è affascinante ma anche violenta e il desiderio umano di prevalere su essa scatena il secondo, freddo e indifferente aspetto».

Infine, arriviamo a una villa abbandonata. Era stata di un podestà, poi di un senatore, infine dei Salvemini, i protagonisti de “La ferocia”. In futuro, chissà. Nella ciclicità del tempo e dei passaggi di proprietà, le ville, le fortezze dell’autorità nell’immaginario collettivo, sono comunque destinate a ospitare chi intende scalare vette sociali senza alcun ritegno. Morto uno squalo se ne fa un altro. Il sistema ne fa un altro?
«È un discorso legittimo ma vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno? Stiamo parlando sempre di elite che si susseguono per cui la storia può essere letta anche come un cimitero di aristocrazie».

Marco Caneschi