Il pensiero di Serge Latouche non è certo tra i più ortodossi. Tuttavia, è un pensiero a misura d’uomo e per questo inserito nell’ambito della nostra tradizione occidentale. Latouche ama definirsi un «obiettore di crescita» e ricordiamo tra i suoi libri Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri) e La scommessa della decrescita (Feltrinelli). Professore, che reazioni suscitano le sue teorie?
Devo dire innanzitutto che nessuno è profeta in patria. Non sono accolto sempre favorevolmente quando parlo in Francia. I governanti o i sindaci non provano simpatia per tesi quali: stop alle grandi opere, basta inceneritori, no alla tav. Ma sono tesi che partono da un assunto finanche banale: la crescita conosciuta nel periodo d’oro appena concluso è una parentesi finita. Un filosofo francese, Jean-Pierre Dupuy, in un libro che s’intitola Il catastrofismo illuminato, ha chiarito bene il concetto: nonostante sappiamo bene che il pianeta non può sopportare una crescita indiscriminata, non teniamo conto di questo assunto. Bisogna pensare di ritrovare la giusta frugalità, che vuol dire senso del limite, fermarsi quando è in ballo la sopravvivenza dell’ambiente. Una crescita infinita in un pianeta finito è una contraddizione così evidente che un bambino la coglierebbe al volo. Il problema è che i nostri governi vedono al massimo in una prospettiva di tre mesi, per questo servono gli intellettuali: a fare guardare più lontano”.
Il suo pensiero mi ricorda una valutazione di Karl Popper sul Novecento quando, a detta del grande epistemologo viennese, tutti gli orologi si sono sciolti in un cielo di nuvole. È arrivata l’ora di governare queste nuvole?
Il pianeta in effetti non è più un orologio, la natura non funziona secondo un meccanismo oliato. Questo perché è subentrata la tossicodipendenza dal consumo.
A cui dobbiamo rispondere con la decrescita.
Quando si sente per la prima volta questa parola sembra di dover fare i conti con chissà quale maledizione. In realtà decrescita è uno slogan provocatorio, serve a creare uno shock. Il concetto di crescita, intesa come sviluppo di un organismo verso una sua trasformazione qualitativa, si applica a piante o animali, che a forza di trasformazioni qualitative arrivano alla morte. L’economia prima è stata vista dai suoi interpreti come un organismo poi gli stessi interpreti hanno forzato le cose e l’hanno trasformata in organismo immortale, che può crescere all’infinito. Il pianeta invece è irreversibile, come dicono le leggi della termodinamica.
Da cui necessita uscire. Basterebbe fermarsi un minuto per rifletterci ma i responsabili delle stato attuale delle cose sono così impegnati che non hanno un minuto. Baldassarre Castiglione disse che un buon principe deve dedicare maggior tempo alla vita contemplativa che a quella attiva. Pensate allo stile di vita di Renzi o della Merkel o dello stesso Hollande. Il concetto giusto è a-crescita più che decrescita, occorre recuperare agnosticismo economico: alcune cose è giusto che crescano, altre no. Per farlo bisogna capire, guardare la realtà. Il famoso 3% di pil che dovremmo perseguire come risultato annuale secondo le tabelle europee è il minimo indispensabile in una società come la nostra impostata in maniera sbagliata. Voglio solo fare notare che con un più 2% all’anno in un lungo periodo, diciamo gli ultimi due millenni, il mondo ha conosciuto 160 milioni di miliardi di crescita del pil. Ci pensiamo cosa significa questa cifra? E crediamo che nei prossimi 2.000 anni si debba addirittura andare oltre? Non ha senso, al di là di un certo livello la crescita fine a se stessa è veramente l’utopia di un pazzo.
Tutto ciò che produciamo e consumiamo ha un impatto sul pianeta. Gli esperti hanno delimitato lo spazio bio-produttivo della Terra, al netto di oceani, deserti e terreni sterili per ragioni varie: si tratta di 12 miliardi di ettari. Se la popolazione fosse di 6 miliardi, avremmo ciascuno 2 ettari per le nostre necessità. Questo è il discrimine assoluto, l’impronta ecologica sostenibile. Ma già l’umanità ha sorpassato i 7 miliardi e dunque è andata al di là della capacità di rigenerazione della biosfera. Sapete, sempre secondo gli esperti, quando è il giorno dell’anno dal quale il pianeta va in sofferenza? Il 26 agosto. Noi passiamo a spremere la Terra per più di 4 mesi, un terzo dell’anno. Com’e possibile che siamo ancora sopravvissuti? Perché, contrariamente a quello che sostengono gli economisti, ci sono i paesi del sud del mondo che aiutano i paesi del nord. Esempio: mentre ogni abitante dei paesi sviluppati consuma ben oltre la soglia dei due ettari, gli abitanti del Burkina Faso consumano un decimo di ettaro. Ma non potrà continuare così e il collasso potrebbe accadere nel ventennio che va dal 2030 al 2050. Bastano due gradi medi in più di temperatura a gravare sul pianeta e un paese come il Bangladesh scomparirà letteralmente. Avremo milioni di immigrati ambientali.
Certo, la pubblicità. Essa serve a renderci insoddisfatti di ciò che abbiamo per desiderare ciò che non abbiamo. E per ottenere quei prodotti pubblicizzati, desideriamo guadagnare di più e dunque occorre lavorare di più. E aumenteranno stress e infelicità. Quali sono i paesi più felici? Vanuatu e Costarica, quelli dove si fa più l’amore che la guerra e si passa più tempo a ballare che a lavorare.
Come costruire una società sostenibile partendo della decrescita?
Ridurre, ridistribuire, rilocalizzare, ristrutturare, rivalutare, riciclare, riutilizzare: è un cambiamento di valori in cui l’altruismo deve prevalere sull’egoismo, in cui bisogna abbandonare il neoliberismo della UE, privilegiare il locale invece del globale e far vincere il bello sull’efficiente. Ci sono altre ricchezze oltre a quella materiale, la scommessa della decrescita se vogliamo è pascaliana, non siamo sicuri di vincerla ma vale la pena guadagnare questa sfida.
Marco Caneschi
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