di
Stefano Pivato
Donzelli
Editore
2015
pp. 116
€ 17
Un pamphlet è un libro, spesso di
piccole dimensioni, che però contiene in sé una forza polemica e di attrazione molto
grande. In più, ma non tutti i pamphlet ce l’hanno, talvolta può avere anche un’eleganza
e un’immediatezza dei toni e del linguaggio che lo rendono fruibile come un instant-book e pregno
d’interesse come un saggio. Queste caratteristiche sono tutte ben
condensate nel libro Al limite della docenza di Stefano Pivato, docente di Storia
Contemporanea all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Pivato nel suo
libro tratta, fondamentalmente, di uno e uno solo argomento: i professori dell’università
italiana. L’argomento è così dichiaratamente centrale da far sì che il
sottotiolo sia "Piccola Antropologia del professore universitario". Il dato veramente interessante, al di
là delle singole tesi mosse qui, è che l’antropologo non è uno “studioso bianco
di fronte a degli aborigeni” ma esso stesso fa parte integrante di questa
comunità, è un professore che blandisce altri professori, suoi consanguinei. Si tratta cioè di quello che si potrebbe definire un heautontimorumenos
contemporaneo: un punitore di sé stesso.
Dicevamo che per essere davvero efficace un pamphlet dev’essere scritto in maniera diretta, di modo che il lettore possa agevolmente saltabeccare da un capitolo all’altro senza troppe difficoltà, così che prima si faccia un’idea generale e poi si crei tante piccole idee particolari sulle questioni sollevate nel volumetto. E che il volumetto in questione risulti molto utile per districarsi in quella foresta amazzonica che è il complesso dell’università italiana, sin dalle prime battute, si evince facilmente.
Pivato
mette in fila vizi e viziacci dei
professori universitari, “gli unici
esseri umani che quando ti incontrano non chiedono Come Stai ma Come Sto”. I ritratti dei
docenti sono ritratti impietosi, di uomini e donne che arrivate al sacro soglio
accademico come prima cosa si premurano di “far terra bruciata intorno a sé”,
impendendo quindi la giusta turnazione da vecchi e nuovi docenti, e poi, soprattutto,
si disinteressano completamente della
didattica (che a ben guardare dovrebbe essere il loro primo compito) a
favore non tanto della ricerca, quanto, e talvolta anche grazie all’aiuto a gratis di laureandi e dottorandi, di scrivere qualche libro che sarà letto in
qualche circolo “chiuso, anzi chiusissimo” e dove la valenza non farà i conti con
la rilevanza scientifica ma dal numero
delle citazioni di questo o quel professore inserite nel testo. Le
eccezioni ci sono, ma purtroppo, sembra dirci Stefano Pivato, sono rare come hapax.
Un sistema perciò sclerotizzato che dopo
gli anni, post-Sessantotto, della grande apertura dell’università a un numero
incredibile di persone (se si raffrontano i dati degli studenti universitari
nei dieci anni che vanno dal 1960 al 1970 con quelli dei dieci anni
immediatamente successivi lo si capisce bene) non ha generato una maggiore
possibilità di far carriera all’interno dell’Università stessa o di trovare più
agevolmente un impiego qualificato, bensì tutto il contrario. Da un lato infatti l’università si è
conchiusa in una spirale di baronati e
potentati in cui le classi e i dipartimenti sono in balia delle bizze e dei
vizi dei professori, mentre il mondo del lavoro (il mercato) viaggia da sé, su
parallele che mai incontrano, neppure in un punto qualsiasi nell’infinito,
quello accademico.
Sono finiti i tempi dei titanici
professori ritratti da Federico Fellini in Amarcord
(anche se in quel caso si trattava di insegnanti liceali). I professori di
questi tempi sono spesso assenti, in classe arrivano in ritardo o non si
presentano proprio, i loro studio sono un coacervo di scartoffie, tomi mai
letti e tesi che prendono la polvere. Se il comparto umanistico è ammonito con
forza da Stefano Pivato (conosciuto molto bene dallo scrittore, in quanto non
solo è professore di Storia Contemporanea, ma è anche stato rettore della
stessa Università Carlo Bo), quello medico-scientifico non se la passa bene.
Infatti per un professore di Lettere che quando non si fa scrivere i capitoli
dei suoi libri dagli studenti li copia direttamente da colleghi magari dell’estero,
vi sono miriadi di professori di Medicina o di Giurisprudenza che insegnano
solamente per accrescere il proprio status professionale: un avvocato che,
oltre a svolgere la propria professione, insegna anche all’Università ha delle
parcelle certamente molto più elevate.
Ecco quindi i motivi per cui l’Italia è
tra i primi Paesi d’Europa per gli studenti che abbandonano gli studi
universitari già dopo il primo anno (si sfiora il 40%) e occupa invece stabilmente
gli ultimi posti per numero di laureati.
Una volta letto e magari anche riletto
il libercolo di Pivato rimane una sensazione amara al palato, soprattutto per chi
come scrive ha bazzicato quel mondo, perché ci si riconosce la realtà per quella che è, per come si
presenta nel costante fluire del divenire. Rimane attuale, ancora una
volta, la capitale battuta del film La
Meglio Gioventù (e cito direttamente da Wikipedia, come un bravo studente mai dovrebbe fare):
Professore: Lei promette bene, le dicevo, e probabilmente sbaglio, comunque voglio darle un consiglio, lei ha una qualche ambizione? Nicola: Ma... Non... Professore: E allora vada via... Se ne vada dall'Italia. Lasci l'Italia finché è in tempo. Cosa vuol fare, il chirurgo? Nicola: Non lo so, non... non ho ancora deciso... Professore: Qualsiasi cosa decida, vada a studiare a Londra, a Parigi, vada in America, se ha le possibilità, ma lasci questo Paese. L'Italia è un Paese da distruggere: un posto bello e inutile, destinato a morire. Nicola: Cioè, secondo lei tra un poco ci sarà un'apocalisse? Professore: E magari ci fosse, almeno saremmo tutti costretti a ricostruire... Invece qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta, vada via... Nicola: E lei, allora, professore, perché rimane? Professore: Come, perché? Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere.
Mattia Nesto