San Valentino è passato da poco. La letteratura media – vedi “Cinquanta Sfumature” – ci ricorda che la passione
può portare a delle scelte estreme. Ancor più
scandaloso, è che anche la cronaca nera ricorda ai comuni mortali il potere
distruttivo della passione: la nostra Barbarella nazionale, alias Carmelita, è
pronta a ribadirlo ogni giorno in tutte le salse.
Dal Giappone, Mitsuyo
Kakuta tratta proprio questo aspetto turbolento e controverso legato alla
passione. L’autrice scava a fondo nell’animo dei suoi protagonisti, senza
cercare di far emergere forzatamente delle risposte. Al contrario, esplora le
vibrazioni e gli impulsi dettati da sentimenti inconsci incontrollabili ma
sinceri.
Sono le azioni, le
scelte e il destino delle due protagoniste a parlare: due punti di vista che si
intrecciano e si fondano, rendendo difficile una vera e propria distinzione sul
piano sintattico e narrativo. Difatti, è la sola narrazione a ritroso degli
stessi eventi a lasciar intuire al lettore che si tratta di un altro occhio, di
un’altra mente pensante. Eppure, le parole, le espressioni, il destino sembrano
essere legati ad una sola anima, ad un solo pensiero.
Le due protagoniste
del romanzo sono Kiwako ed Erina/Kaoru. Entrambe giovanissime, ma in anni
diversi: Kiwako poco più che ventenne negli anni Ottanta, Erina nel 2005. Entrambe
condivideranno un destino crudele, fatto di passioni travolgenti ma distruttive
all’ennesima potenza.
Kiwako è l’amante del
padre di Erina prima ancora della nascita di quest’ultima. Costretta ad
abortire dall’uomo che ama e da sua moglie, Kiwako diventa sterile: è questo
senso di vuoto inconscio – il vuoto della maternità, del feto, della
procreazione – a portarla ad un gesto estremo. Kiwako rapisce la bambina di sei
mesi dell’amante e della sua rivale in amore. Erina, la neonata, diventerà la
sua Kaoru, con la quale condividerà quattro anni di amore materno intenso e
sviscerato, di fughe, sette religiose e amici veri e fidati.
Erina, d’altro canto,
non farà la differenza: tornata tra le braccia della sua famiglia d’origine,
vivrà una vita vuota d’affetti se non per una sola e unica passione
distruttiva, quella con un uomo sposato che le regalerà una gioia inaspettata.
La trama non è
originale: il tema è già stato trattato fino alla nausea. Eppure, questo legame
sottile e improbabile tra le due donne, profondo ma vissuto solo a livello
inconscio fino all’ultima riga del romanzo, lascia spiazzati. Come viene
ricordato ad Erina: “Tu sai benissimo
cosa significhi amare ed essere amati, desiderare ed essere desiderati. E
questo è tutto ciò di cui si ha bisogno per essere una buona madre”. In una
società predominata dal concetto di moralità e dai legami di sangue, Kiwako
dimostra che al di là di un gesto apparentemente immorale, c’è solo un grido di
protesta. Un vuoto da colmare con tanto amore, quello materno, puro, senza
alcun legame carnale. Motivo per cui Kiwako non comunica mai verbalmente i suoi
sentimenti alla piccola Erina/Kaoru ma solo a livello inconscio, in un dialogo
personale, quasi consapevole che quel piccolo “angioletto” – riferimento indiretto
ad un simbolo importante nella vita delle due – potrà leggerle il pensiero.
Una lettura piacevole,
intensa, capace di inchiodare fino all’ultima parola. Un modo per celebrare San
Valentino all’insegna del vero amore primordiale: quello materno, quello che
non chiede e non pretende, sincero e incondizionato.
Arianna Di Fratta