#CritiCINEMA - Di cosa parliamo quando parliamo di "Birdman o (L'imprevedibile virtù di una vittoria all'Oscar)"

Birdman o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza) di Alejandro González Iñárritu, vincitore agli Oscar 2015 di quattro statuette per miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia, è un film da leggere sotto il segno di Carver.
Di quel Raymond Carver (scrittore statunitense morto nel 1988 a cinquant'anni) costantemente evocato e soprattutto della sua raccolta di racconti Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, edita per la prima volta in Italia da Garzanti nel 1987 nella traduzione di Livia Manera e con una postfazione a cura di Fernanda Pivano.



Carver è presente fin da subito, dalla citazione in esergo, sui titoli di testa, composta dal ticchettio delle bacchette sulla batteria che non ci lascerà fino alla fine del film.
È la stessa fatta incidere sulla lapide del poeta nel cimitero di Port Angeles:

«And did you get what
you wanted from this life, even so?
I did.
And what did you want?
To call myself beloved, to feel myself
beloved on the earth.»
(«E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra.»)

L'ombra dello scrittore è nell'aria, ci accompagna nelle prime inquadrature, quando ci accorgiamo che il protagonista, Riggan Thomson (Michael Keaton), celebrità in decadenza -che tenta di smarcarsi dall'etichetta che l'ha reso famoso, l'interpretazione del supereroe "Birdman"-, sta per debuttare con una pièce teatrale tratta proprio dal racconto Di cosa parliamo quando parliamo d'amore.
In seguito sapremo che Carver c'entra ad un livello ancor più profondo, un incontro avvenuto quando l'attore era ragazzo, che ha segnato per sempre la sua vita.

Ma quella desolazione di vialetti vuoti, di cucine in penombra, di mobili in vendita della middle class americana che sa di gin scadente e sigarette fumate con rabbia descritta da Carver si trasfonde nel nuovo infrangersi del sogno di una gloria passata del cinema, un supereroe che ha perso i suoi superpoteri e che non è neppure capace di gestire le sue relazioni sentimentali.
Le proposizioni frammentate, minimaliste, di Carver si dilatano nei piani sequenza di Iñárritu, dentro e fuori fra palco e camerini, fra teatro e vita reale. Non senza che le due cose si contaminino. Un'angosciante pedinamento dell'irrealtà.

Se l'acuta capacità di guardare dentro il tessuto della propria identità nazionale e di constatare l'infrangersi del mito americano nella letteratura è maggiormente appannaggio degli scrittori autoctoni (non solo Carver, ma anche il Miller di Morte di un commesso viaggiatore o, in tempi più recenti, il Roth di Pastorale americana – di cui abbiamo già parlato qui: http://www.criticaletteraria.org/2012/02/il-fallimento-di-una-famiglia-e-di-un.html), per quanto riguarda lo schermo -perlomeno stando a questa edizione degli Oscar- sembra essere passata al cine-cinismo dei registi immigrati, come Iñárritu, o di quelli più al margine dell'American system come Richard Linklater.

Il reazionario American Sniper raccontato da Clint Eastwood (rimasto quasi a bocca asciutta nonostante le 6 candidature) non può niente contro l'umanissimo supereroe perdente.
Se il fenomenale cecchino Chris Kyle (Bradley Cooper) abbatte in sequenza nemici senza altra caratterizzazione che una cattiveria da nemico dei fumetti, quella di Birdman è una guerra contro se stessi. Contro il fumetto che si è stati. Un atroce stillicidio di disillusioni.

Come a dire che, almeno per l'anno 2015, la guerra che ci interessa davvero è ancora quella che avviene dentro ciascuno di noi, ma che l'inferno sono sempre gli altri.

Giulia Marziali