La saga di Lilith
George
MacDonald
Auralia
edizioni
Abbiamo
già parlato di “Sulle ali del Vento del Nord”, dello scozzese George MacDonald, scritto nel 1871, che ha come
protagonista la Morte. La saga di Lilith, composta attorno al 1895 e declinata
nei tre romanzi “Oltre lo specchio”,
“Lilith” e “La casa del rammarico”, riprende la figura del demone femminile
associato con il vento. Protagonista della trilogia è Lilith, dall’accadico
Lil-itu, signora dell’aria, creatura collegata alla tempesta e al gatto. Nella
cultura mesopotamica, Lilith era un demone, che gli ebrei hanno mutuato durante
la cattività babilonese e trasformato nella prima moglie di Adamo, ripudiata
per essersi rifiutata di obbedire al marito. Da sempre possiede caratteristiche
negative, di un femminino notturno, stregonesco, adultero e lussurioso.
Nell’ottocento, però, con l’emancipazione femminile, viene a rappresentare la
donna forte che non si assoggetta più all’uomo, è rivalutata dai moderni culti
neopagani ed assimilata alla Grande Madre.
Nel
primo libro, il protagonista, Vane, si ritrova in un mondo parallelo, seguendo Mr
Raven, un inquietante bibliotecario capace di trasformarsi in corvo, che poi
scopriremo coincidere con Adamo. Qui vivrà avventure di ogni sorta, incontrerà
mostri, uccelli, bambini, scheletri, donne bellissime, animali favolosi. Molti
i topoi della letteratura fantastica. Il primo è lo specchio magico, il device capace di fungere da tramite fra
universi paralleli, come l’armadio de “Le
Cronache di Narnia” – e non a caso C.S. Lewis era il più grande ammiratore di MacDonald.
Altre immagini ricorrenti sono la battaglia degli scheletri (cfr. i sentieri
dei morti di Tolkien, film come “La Mummia”), i defunti addormentati nella
cripta, la foresta buia e minacciosa (cfr. Selva oscura, Bosco Atro, Foresta di
Fangorn.)
Ma
l’incontro principale sarà quello con Lilith, donna bellissima ma malvagia,
prototipo di tutte le vampire precedenti e successive. Se la Lilith ebraica
sfruttava le polluzioni notturne dei giovanotti per generare dei jiin,
quella di MacDonald si comporta come una sanguisuga che morde e salassa per
mantenersi in forze. La sua bellezza è la sua forza ma anche il suo peccato. Contemplarsi
la appaga, come accade alla perfida matrigna di Biancaneve, ma amplifica la sua
egocentricità, la allontana dal Bene, la rende autoreferenziale e cattiva.
Al
pari della Lilith del mito, anche questa costituisce una minaccia per i bambini.
E la comunità dei piccoli innocenti (che ricordano Diamante, il Bambino di Dio
di “Sulle ali del Vento del Nord”) è
una caratteristica peculiare della saga. Ma Lilith è anche incarnazione della
misoginia, della paura che il maschio ha della donna, di colei che può avvilupparlo,
stregarlo, succhiargli via l’anima insieme col seme. È una belle dame sans merci non molto dissimile dalla Ayesha di Rider Haggard.
A
differenza di Tolkien, che non amava lo scrittore scozzese proprio per questo
motivo, il fantasy di MacDonald - teologo, predicatore e mistico - ha una forte connotazione allegorico -
religiosa. Nel trattato “L’immaginazione
fantastica”, MacDonald sostiene che un racconto ben costruito deve avere
anche un significato, non necessariamente palese all’autore, e modificabile secondo
il livello culturale dei lettori. Non è un caso che a ripubblicare la saga di
Lilith sia l’Auralia edizioni, diretta da Marco Gionta, speaker di radio
Vaticana e cultore di temi afferenti alla spiritualità cristiana, come le
tradizioni angeliche. Tutta la saga, e, più in generale, tutta la materia
narrata da MacDonald, si basa sulla dicotomia Bene/Male, Luce/Oscurità,
Dannazione/Redenzione, Leopardo bianco/Leopardo maculato. Peccato e perdono
sono i due temi principali, strettamente connessi l’uno all’altro. Il peccato
esiste, fa parte della realtà e della creazione. Per superarlo, occorre
conoscerlo e sperimentarlo.
Il
peccato di Vane è l’ostinazione, la presunzione di poter fare a meno degli
altri; quello di Lilith, più grave, è l’aver fatto a meno addirittura di Dio,
pensare di essersi immaginata da sola. Lilith vive immersa nel buio del suo egoismo,
chiusa in se stessa, cieca ai bisogni degli altri, capace persino di uccidere
sua figlia. Il luogo che si è creata è l’inferno stesso, o meglio l’angoscioso
deserto della sua mente peccatrice. Lilith è bellissima perché pensata da Dio
ma ha una macchia sulla mano, indice della corruzione che avanza, del male che
consuma (come il ritratto di Dorian Gray.) Il leopardo coperto di macule è la
forma definitiva del male.
“Questa non è sul leopardo ma sulla donna” disse, “e non se ne andrà finché non ti avrà divorata fino al cuore e la tua bellezza scivolerà via da te attraverso la ferita aperta.” (pag 78 secondo volume)
Occorrerà
un verme bianco, un biblico serpente che, come la spada di Shannara,
s’insinuerà nel suo seno e la mostrerà a se stessa, rivelandole l’abisso della
sua perversione, l’orrore di ciò che è. Ma, a differenza dell’oggetto magico di
Terry Brooks, il verme opererà in lei una conversione dichiaratamente
religiosa. Solo così Lilith potrà arrendersi al bene, lasciarsi redimere, accettare
la morte, perdere addirittura un pezzo di sé. Ma da questa perdita scaturirà un
nuovo inizio, rinascerà la vita, sgorgherà l’acqua dell’espiazione e del
risanamento suo e di tutta la natura.
“Il Male che hai programmato” riprese Adamo “non lo realizzerai mai, Lilith, perché Dio – e non il male – è l’Universo, ma finirà: cosa sarà di te quando il Tempo sarà svanito nell’alba del mattino eterno?Pentiti, ti supplico e diventa di nuovo un angelo di Dio!” (pag 78 secondo volume)
L’escatologia
di MacDonald non concepisce una dannazione eterna. Tutto fa ritorno, prima o
poi, al Creatore, a colui che ha pensato la creatura.
Anche
il protagonista non è scevro dal peccato, è egoista e, per sua stessa
ammissione, avido, impulsivo, sciocco. “Sarai
morto per tutto il tempo che rifiuti di morire”, gli dice il corvo, alias
Mr Raven, alias Adamo. Ovvero: sarai un peccatore finché non opererai una
catarsi, finché non accetterai la perdita di ciò che eri in precedenza per
trasformarti in qualcosa di nuovo, di puro, di risanato. Fondamentale il
concetto che bisogna morire per vivere davvero. Solo arrendendosi,
abbandonandosi al sonno nella fredda camera della morte, si potrà sognare e poi
rinascere a vita vera e imperitura.
La
legge morale è una sola, non la si può reinventare né ribaltare, nemmeno in un
mondo “secondario o sub creato”. Laddove Tolkien inventa un universo ateo,
basato su valori laici come l’eroismo, il sacrificio, la lealtà, MacDonald ci
offre un nucleo religioso potente che, se parte in sordina col primo libro, si
fa sempre più esplicito nel procedere del racconto. Numerosissime le allusioni bibliche anche lampanti,
come la presenza di Adamo ed Eva, l’Eden in cui vivono creature innocenti (i
Bambini), l’Ombra del serpente tentatore, la città di Dio del finale. Le
vicende narrate hanno anche parecchie similitudini con il viaggio dantesco, ma
senza la potenza realistica, oltre che allegorica, del fiorentino. Quello di
MacDonald è un universo dantesco edulcorato, illanguidito e rivisitato in
chiave preraffaellita.
I
difetti del libro sono, a nostro avviso, due: la sensazione che, almeno all’inizio,
proceda per accumulo, lasciandosi guidare attraverso i capitoli solo dalla fervida
e gotica fantasia dell’autore, e la lirica impenetrabilità dei dialoghi, dovuta
all’innegabile influenza del linguaggio delle Sacre Scritture.
Patrizia Poli
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