di Philipp Meyer
Einaudi, 2014
Traduzione italiana di Cristiana Mennella
pp. 395
€ 13,50
Pennsylvania, Mon Valley: un tempo il principale centro
siderurgico mondiale, ora ambiente urbano desolato, sofferente a
causa di una crisi iniziata tempo fa e che sembra non avere fine. La
gente è stata licenziata, le fabbriche hanno chiuso ed è rimasta
solo la ruggine a coprire i vecchi muri. Case, negozi e industrie
lasciate andare, povertà strisciante e una sensazione funerea che
non se ne và. Ovvio che anche chi vive in quelle zone risenta di
queste condizioni: è un’umanità lacerata, quella che ci racconta
Meyer nel suo romanzo d’esordio.
Non fa eccezione Isaac, ventenne mingherlino, molto intelligente
ma insicuro, che nella più classica delle tradizioni americane ed
echeggiando numerosi precedenti da romanzo di formazione, parte per
un viaggio, o meglio scappa. Destinazione California, dove il
college gli darà l’opportunità di realizzarsi sottraendosi ad un
destino angusto e soffocante. Già nel primo capitolo, però, arriva
un imprevisto: il ragazzo si ritrova ad uccidere un barbone che stava
per violentare il suo amico Poe. Non si può decidere quale sarà il
proprio percorso formativo, è la vita a stabilire come forgiarti e
quali esperienze si radicheranno in te.
Lo stallo in cui si trova Poe è emblematico: ogni scelta implica
conseguenze non solo per chi la compie ma anche per chi gli sta
attorno e ciò influisce inevitabilmente sulle decisioni da prendere.
Mentre Isaac si ritrova a vagare senza meta e privo di soldi nella
pericolosa provincia americana per fuggire da quel cadavere che pesa
sulla coscienza, ennesimo fardello di una vita insopportabile, il suo
amico finisce in carcere, invischiato in una gang che lo protegge
dagli altri detenuti solo finché saprà dimostrare fedeltà
incondizionata: in pratica significa nuovi guai in vista; sfortuna,
destino o frutto naturale delle scelte di Poe?
Rimanere o andar via, è questo il dilemma che assilla tutti i
personaggi: la decisione da prendere significa anche occuparsi di
qualcuno o lasciarlo a se stesso. Molte delle situazioni irrisolte
presentate nel libro si devono al conflitto tra dovere e desiderio di
emancipazione individuale: in questo senso, una scelta vale l’altra,
tanto ci sarà sempre un rimpianto e un senso di colpa (per sé o per
gli altri) dietro l’angolo. In effetti, comunque, praticamente
nessuno riesce a staccarsi dalla propria città; il rapporto
problematico tra l’individuo e la società (intesa come la catena
di relazioni che nel bene e nel male ci lega ai nostri simili) è il
perno del romanzo, che mostra quanto questo nodo sia difficile da
sciogliere.
C’era qualcosa di tipicamente americano nell’incolpare se stessi della propria sfortuna, quel non voler credere che la propria vita risentisse dei fenomeni sociali, la tendenza ad attribuire i grandi problemi al comportamento individuale. L’altra faccia del sogno americano.
Come nel caso della Eveline di Gente di Dublino, è il
legame alla terra, alla famiglia (una catena che nasce dal senso di
responsabilità ma anche da quello di colpa) ad impedire ai
personaggi di abbandonare i propri luoghi natii. Non se ne è andata
Grace, la madre di Poe, incastrata nel ruolo di figlia e poi di
moglie, con un marito assente cui però è rimasta legata senza
nemmeno saperne il motivo; forse, semplicemente, perché andare
contro la corrente della vita non è facile, e qui nessuno è un
eroe; si sopravvive, continuando a coltivare l’illusione cechoviana
di un futuro in un altrove migliore. La lotta per mantenere la
dignità in un ambiente sociale e familiare disastrato è un’impresa
titanica, ma anche una piccola donna può ingaggiare battaglia.
Non se n’è andato Harris, il poliziotto che indaga
sull’omicidio del senzatetto, combattuto tra il proprio dovere e i
sentimenti che prova per Grace, tra la voglia di fare la cosa giusta
(anche se dolorosa) e l’istinto di chiudersi in un quieto vivere
fatto di routine e solitudine, ma anche di tranquillità e assenza di
turbamenti. Lo stesso Poe, promessa mancata del football, ha
rinunciato al college e si ritrova anche lui impantanato in quella
palude esistenziale. Per questo Isaac prova un sentimento ambivalente
nei confronti di sua sorella Lee che si è iscritta a Yale: capisce
benissimo il suo desiderio di andarsene, ma non può non odiarla un
po’ per averlo fatto davvero, lasciandolo solo.
Il senso di solitudine che prova Isaac deriva anche dal suicidio
della madre, avvenuto cinque anni prima: quella perdita ha segnato il
figlio in profondità lasciandogli una sensazione di abbandono
cosmico, ampliata dalla natura indifferente e silenziosa della
campagna americana. A ben guardare, comunque, tutti i personaggi
condividono questa concezione pessimistica della condizione umana: i
destini di tutti, vivi e morti, sono vagamente connessi in una sorta
di eterna e ciclica danza di vita, morte e rigenerazione, in cui ogni
gesto di ogni esistenza è legato a tutti gli altri, senza però che
questa relazione faccia sentire gli uomini meno soli o sveli loro
qualcosa sul significato ultimo delle cose.
Meyer alterna il narratore esterno ai pensieri dei personaggi,
arrivando alla seconda persona singolare quando essi rivolgono frasi
a se stessi. Flussi di coscienza che costituiscono il vero tessuto
narrativo del romanzo, nei quali si mischiano pensieri e argomenti
disparati, riflessioni profonde e banalità, decisioni e
ripensamenti, disagi e tensione al miglioramento, lì dove nasce
tanto la possibilità del cambiamento quanto il germe della rinuncia.
Come accade spesso quando si lascia la mente libera di vagare,
affiorano pensieri poco nobili, difficili da accettare ma che più di
tutte le chiacchiere fatta ad alta voce raccontano la nostra vera
essenza e le nostre paure.
Lo scrittore americano segue diversi protagonisti della vicenda mostrandoceli con felice profondità ma non partecipando alle loro passioni, rimanendo sempre ad una certa distanza: il risultato è una prosa ibrida in cui da una parte le riflessioni intime dei personaggi vivacizzano la narrazione e dall’altra lo stile mantiene sempre un tono quasi da romanzo classico che col suo ampio respiro sa intercettare il movimento della vita: passioni, sentimenti, confusione, rimpianti, voglia di riscatto, errori e piccoli momenti di felicità. Tutto questo agita le esistenze dei personaggi, ognuno a suo modo costretto a fare i conti con le proprie scelte e a trovare il modo migliore di andare avanti nonostante la realtà frustri sempre le aspettative.
Lo scrittore americano segue diversi protagonisti della vicenda mostrandoceli con felice profondità ma non partecipando alle loro passioni, rimanendo sempre ad una certa distanza: il risultato è una prosa ibrida in cui da una parte le riflessioni intime dei personaggi vivacizzano la narrazione e dall’altra lo stile mantiene sempre un tono quasi da romanzo classico che col suo ampio respiro sa intercettare il movimento della vita: passioni, sentimenti, confusione, rimpianti, voglia di riscatto, errori e piccoli momenti di felicità. Tutto questo agita le esistenze dei personaggi, ognuno a suo modo costretto a fare i conti con le proprie scelte e a trovare il modo migliore di andare avanti nonostante la realtà frustri sempre le aspettative.
I cambi di prospettiva, oltre a mostrare come sia facile farsi
un’opinione sbagliata degli altri che non conosciamo mai del tutto
e di cui ignoriamo le fragilità più riposte, consente alla
narrazione di allargarsi finendo per comprendere una vasta gamma di
umanità. Ricorda, in questo, la coralità di Spoon River, con
le sue storie che si intrecciano spostando il punto di vista e le sue
anime colme di rimpianti, rivendicazioni, gioie. Spesso si parla di
Grande Romanzo Americano, ed anche per questo libro è stata
scomodata quest’ingombrante definizione. Ebbene, io definirei
Ruggine americana un Grande Romanzo Umano, perché non parla
di una nazione ma dell’umanità intera.
Meyer ha la capacità straordinaria di mettere in scena la vita,
partendo dai minimi dettagli intimi delle persone (disturbi, sogni,
gesti impercettibili) che, messi tutti assieme, formano un groviglio
inestricabile e misterioso di sentimenti, incomprensioni, mezze
verità, arrendevolezza e orgoglio. Vite marginali, incapaci di
riscattarsi dalla condanna in quelle lande in mezzo al nulla. Quanto
sono teneramente complessi, questi piccoli esseri umani. Il lettore
viene catturato non tanto dalla tensione e dell’ansia di voler
sapere come va a finire (la storia non è adrenalinica né procede
per colpi di scena) quanto dalla naturalità dei personaggi, dalla
chiarezza con cui l’autore li rende umani; l’avventura
esistenziale di un nostro simile non può non toccarci da vicino.
Meyer, lo ripetiamo, lascia che i suoi personaggi si svelino
attraverso i loro pensieri, ed è stupefacente la sua capacità di
non giudicare, di mostrare come tutti quanti siano fratelli nella
lotta inesausta per la propria dignità; una lotta persa in partenza,
almeno in parte, perché l’esistenza di questi personaggi umani,
troppo umani, scorre attraverso giorni fatti di compromessi,
fallimenti, contraddizioni, illusioni, sbagli. Ma è proprio il ritmo
della loro sconfitta, costellato tanto di cadute quanto di tentativi
di rialzarsi, illuminato da attimi fragili di stupenda umanità, a
dare nobiltà a queste persone, così vicine a noi nella loro forza e
nelle loro debolezze.
Aleggia, per tutto il romanzo, un senso di fatalismo ironico. Alla
fine però, inaspettatamente, il peggio viene evitato e sembra
addirittura resistere un barlume di speranza per i protagonisti. E
allora perché, terminata la lettura, ci si sente oppressi da una
malinconica pena infinita?
Nicola Campostori