Era maggio
Michail
Bulgakov
Traduzione
di Chiara Munerato
Damocle
edizioni
pp
19
5,00
La
Damocle edizioni continua sorprenderci con i suoi librettini esili come foglie cadute,
cuciti a mano e con testo a fronte. Contengono - per la gioia di coloro che non
stanno per forza dietro all’ultimo romanzo premiato, ma amano il buon odore d’una
biblioteca polverosa - minuscole chicche della letteratura mondiale, tradotte e
pubblicate in Italia per la prima volta. Dopo la collana lettone, è la volta
dei classici russi.
“Era maggio” è un testo breve di Michail
Bulgakov, (1891 – 1940) l’autore de “Il
maestro e Margherita”, “Cuore di Cane” e “Le uova fatali”. Medico, lasciò la professione, troppo soggetta a
pressioni governative, per dedicarsi alla scrittura, finendo, però, triturato
nell’ingranaggio sovietico. Vivo forse solo grazie alla simpatia personale di
Stalin, fu sempre inviso al regime, tutte le sue opere osteggiate e molte
costrette a uscire postume. Dalla sua morte fino al 1961 nessun suo lavoro fu
pubblicato in Russia, poi, per cinque o sei anni, scoppiò il fenomeno Bulgakov,
rinnovatosi in seguito negli anni 80. “Il Maestro
e Margherita”, il famoso romanzo del Diavolo e di Ponzio Pilato, ispirato
al “Faust” di Goethe, fu la fantasmagorica opera di tutta la vita, con numerose
stesure basate anche sulla memoria, dopo averne personalmente bruciato il
manoscritto.
“Era maggio” è stato composto nel 1934. Tradotto
per noi da Chiara Munerato, pensato come primo capitolo di un diario di viaggio,
non fu mai proseguito perché le autorità negarono a Bulgakov il visto di
espatrio.
È
primavera, l’ io narrante, un drammaturgo facilmente identificabile con l’autore,
attraversa una Mosca in bilico fra progresso e conservatorismo rivoluzionario.
“Era maggio, il bellissimo mese di maggio. Percorrevo il vicolo, proprio quello in cui si trova il Teatro. Era un bel vicolo liscio, adorabile, su cui passavano incessanti le macchine.” (pag 9)
Il
progresso spaventa, le macchine “strillano” in modo sgradevole e intimoriscono
il protagonista che teme addirittura di morire. Questa, probabilmente, è una
metafora della paura di scomparire, di non esistere più professionalmente oltre
che fisicamente. A conferma delle sue preoccupazioni, s’imbatte in un giovane,
appena tornato dall’estero, che critica la sua opera, ne consiglia il
rifacimento. Sembra quasi la parodia primo novecentesca dei moderni editor
armati di forbici:
“Il terzo atto è da rifare. Il secondo quadro del terzo atto è da eliminare, mentre il primo è da spostare nel quarto. Così andrà benissimo.” (pag 13)
Consideriamo,
però, che oltre alla censura artistica, Bulgakov fu vittima, per tutta la sua
esistenza, di quella, ben più pericolosa e opprimente, del regime sovietico. Sempre
osteggiato e respinto in ogni sua iniziativa, egli afferma “e ogni giorno io morivo”. E ancora, “il ciclo si chiudeva sulla scena”, a
intendere un eterno cerchio in cui le cose sembrano in procinto di cambiare, di
rinnovarsi (maggio, la promessa della primavera) ma non lo fanno mai, tutto
resta irrealizzato, i manoscritti rimangono nel cassetto, la pioggia d’autunno
si riappropria del vicolo, le speranze restano lettera morta, “l’anima mia s’infiacchì, dopodiché qualche
cosa cominciò a fremermi nel petto.” (pag 15)
È
un circolo vizioso di speranze deluse, stagioni che si rincorrono, atti che si
susseguono su un palcoscenico sempre uguale che finisce per assomigliare ad una
gabbia.
“E maggio scomparve. Ci fu poi giugno, luglio. Quindi arrivò l’autunno. E tutte le piogge annaffiavano quel vicolo, il ciclo si chiudeva sulla scena.” (pag 19)