"L'inferno del romanzo. Riflessioni sulla
postletteratura"
di Richard Millet
Massa, Transeuropa, 2010
di Richard Millet
Massa, Transeuropa, 2010
Traduzione di Stefania Ricciardi
Introduzione di Carlo Carabba
Pp. 220
€ 18,90
€ 18,90
Il problema del romanzo oggi non è uno
dei problemi della condizione dell’arte, e della letteratura soltanto, bensì è –
non solo rappresenta – tale problema nella sua declinazione essenziale, nella
sua forma più alta e perciò più discussa – in discussione – e problematica
possibile. Questo a dispetto di ciò che si può credere, o del tentativo di
credere diversamente – che non è altro che il tentativo di fingere che ciò non
sia così, che i termini del discorso non siano questi, così assoluti,
perentori, e perciò il tentativo di fare come se nulla fosse, come se nulla
fosse accaduto, dalla fine degli anni Settanta ad oggi, in termini di sconfitta
del giudizio critico su quello emotivo, della perdita di centralità della
critica sull’opinione, della testa sulla pancia.
Contraddistinto da una confusione di
termini e una proliferazione di teorie, nonostante e soprattutto a valle della
polverizzazione del sistema letterario europeo, occidentale e mondiale, il problema
del romanzo assume su di sé la questione – universale – del problema dell’arte,
e quindi del problema dell’uomo, la sua condizione ed interpretazione, nel
tempo in cui vive e cui gli è dato vivere, del mondo di cui è rappresentazione
e che dovrebbe trascendere, dei modi in cui la trascendenza è possibile e dei
motivi che lo spingono – se motivi ancora si possono rintracciare – a
trascendersi nell’arte: e l’assunzione del problema dell’arte – da parte del
romanzo, e di chi vi riflette – è più urgente ancora ai giorni nostri, in cui
essa appare così secondaria, irrilevante, in nome di una mai completamente
indagata – e confutata – dinamica secondo la quale la polverizzazione del
sistema dà patente a tutto (a ogni opera e a chiunque ne parli) di essere tutto
– di passare per ciò che non è nel nome dell’egemonia dell’opinione sul
pensiero e del rigurgito del piacere sulla meditazione sul bello, del
participiale caduco sull’immortale che nel suo indicativo già si fa remoto e
perciò storico – e che perciò autorizza a non riflettere niente, e tanto meno a
discernere, dividere, setacciare e classificare, a favore della bulimica
vertigine catalogica, dell’infinito accumulo di titoli e testi e autori che,
con la foglia di fico dell’appartenenza a generi e forme ognuna dignitosa di
per sé, ambiscono – e riescono – ad allignare ove non dovrebbero, né potrebbero
– ove, per capirci, in un sistema di gerarchie e valori codificati, non
starebbero, né ambirebbero a stare.
La questione è complessa, e la fatica, l’insofferenza
che si mostra nei confronti di coloro che riflettono il problema del romanzo –
annosa questione e in fondo superflua, sembrano suggerire – testimonia di un’insofferenza
più profonda, quella verso chi non ha ancora abdicato a un ruolo – quello di critico
letterario, di critico d’arte – che, perduta ogni legittimità e smarrita la
coscienza della propria funzione, ostinatamente non vuole gettare a terra le
armi, e rivendica il proprio dovere – in tempi in cui di doveri non se ne
parla, ma, come per le opinioni sui pensieri, solo di diritti è lecito dire –
di operare selezioni, costruire diagrammi, storicizzare il presente, cercare insomma
nell’arte il suo senso supremo – la ricerca della verità come cardine ultimo
della sua ragione e della sua bellezza – e su questi presupposti, con i dovuti
criteri epistemologici e critici, e sperando nella non aleatorietà del proprio
giudizio e nella bontà delle proprie prospettive – dei propri pregiudizi
storici, critici e politici, quindi (di lì) letterari e artistici, e viceversa –
dettare una linea, rintracciare lo svolgimento di un problema e le sue
soluzioni, di volta in volta, nel tempo, diverse e originali, nel loro fecondo
rapporto con la tradizione – ciò che rompono e quel che mantengono – e con il
presente – quel che introducono e intorno a cosa si configurano come diverse e
migliori delle altre, assolvendo così a questo compito che, proprio ora che è
massimamente confuso e mal ritenuto, è quanto mai necessario e imprescindibile.
Siamo onesti: la critica letteraria, già
sospettata di sciacallaggio – e ce ne sarebbe da dire, delle bibliografie
rimasticate per far carriera accademica, o del nulla che imperversa sugli
inserti letterari nostrani – dagli anni Ottanta vive una condizione di
precarietà e disagio che le è stato consegnato dalla condizione in cui si è
ritrovato il mercato del libro. L’apertura al libro come prodotto, la
liberazione del mercato – in America, le scuole di scrittura creativa – hanno
consegnato al mondo dell’arte una realtà in cui il romanzesco si è preso la
rivincita – e che rivincita – sulle infinite elucubrazioni avanguardistiche e
sperimentali intorno al problema del romanzo come struttura, della sua
evoluzione come forma, del suo essere – nella sua elasticità formale – protesi,
testimonianza e manifestazione dello stato della sua classe di riferimento, la
borghesia dell’Europa moderna, dell’Occidente in genere, classe e forma già
dilaniate al giro di boa del Novecento, deflagrate storicamente con la
massificazione del potere, i totalitarismi, il suicidio d’Europa, infine votati
al buco nero che sono state, a Doctor
Faustus e Uomo senza qualità scritti, a Modernismo esaurito e Borges accolto
con speranza tinta di oscure pulsioni di annichilimento del discorso letterario
in genere, del romanzo come pianta tesa alla sterilità – o seme incapace di
generare forme nuove di sé – le sperimentazioni dei tedeschi del Gruppo ’47, i
nostri neoavanguardisti, il Nouevau Roman e tutto quel che ha condotto, dopo
un decennio di contestazioni – letterarie e politiche – al trionfo del
contenuto sulla forma, del tema sulla struttura, della lingua di plastica sull’indagine
sulle possibilità plastiche della lingua, del romanzone adatto a tutti – minimo
comun denominatore – sul romanzo capace di tutto, di parlare a tutti, di parlare
del tutto – multiplo universale che tenesse conto di ciò da cui proveniva e
della missione che assumeva, nel momento in cui era licenziato, pubblicato.
Così, dagli anni Ottanta il percorso che
un tempo sarebbe stato di assimilazione – del basso dall’alto – è diventato di
contaminazione e abbassamento, dell’alto verso il basso, in ogni senso (simile
discorso è avvenuto in quasi tutta l’arte – prima la musica, quindi le altre). La
dinamica del mercato, tutt’altro che discutibile – o condannabile – di per sé,
nella sua verità, nella sua materica e ineludibile evidenza, ha creato i
presupposti per liberarsi del giudizio dei mostri sacri, e con essi dei mostri
sacri che i mostri sacri avevano eletto a Dèi dell’arte; con l’acqua sporca –
una certa presunzione di certa critica letteraria, un sistema chiuso che
concepiva poco o nulla fuori di sé, un circuito peraltro già teso al
cannibalismo, alla riflessione sulla riflessione, alla metaletteratura come
soluzione ideale al discorso sul romanzo e sulle sue possibilità, una certa
cioè sterilità non tanto nelle premesse, nell’intento, quanto negli esiti,
nelle proposte – si è gettato anche il bambino – la necessità di una guida, la
verità della gerarchia, l’urgenza di pensare il sistema artistico come
emanazione profetica del sistema civile e politico di una realtà, e perciò di
interrogarsi, e di far interrogare chi aveva gli strumenti per porre queste
questioni, sul problema dell’arte come problema di modelli di pensiero, di
pensiero tout-court, di critica
letteraria come esercitazione a pensare il futuro, futuro dell’arte come
prospettiva della sua classe e salute del suo protagonista, l’individuo –
pensando in fondo se ne potesse fare a meno.
Le conseguenze sono evidenti: il dominio
dell’opinione – immotivata, scevra di spiegazione, accampata e inchiavardata
sul “mi piace” che tutto livella e regola – ha azzerato le possibilità della
critica letteraria, e con essa della storiografia. Se una parte della critica
letteraria ha poi, in effetti, causato il rovesciamento di valori con il suo
snobistico ritrarsi – nella critica romanzesca – su torri d’avorio sperimentali
e incomprensibili che il romanzo non poteva permettersi – giacché esso nasce
per essere letto, e vive nella condivisione e nella sua incisività e incisione
sulla realtà ben più della poesia e della musica – tutta un’altra parte, sana,
di critici impegnati a interrogarsi sul futuro del romanzo, sulla bellezza
delle sue manifestazioni, sulla stupefacente prospettiva di un romanzo che,
mondializzandosi, come è mondializzandosi oggi, si preparava ad affrontare la
più alta sfida mai postagli – farsi cioè forma esemplare per ogni urgenza e
necessità artistica, con elasticità infinita e rispondendo positivamente a
tutti gli stimoli e i rischi cui la globalizzazione del suo uso lo avrebbero
costretto – si è ritrovata completamente privata di ogni autorità,
autorevolezza, legittimità e quindi legittimazione a operare.
Perciò, checché se ne dica, della
malattia del romanzo – cronicizzazione infinita della lunga agonia troppo
presto salutata come la sua morte – è esatta e complementare condizione la
malattia della critica letteraria, immolata sull’altare del piacere e
tormentata da problemi sulla sua legittimità, della sua necessità, e quindi
della sua verità – del suo essere non solo atto appassionato di chi esprima un
parere su ciò che più di altro lo faccia vibrare, ma del suo necessario
costituirsi come atto estetico, etico e filosofico che in ogni passo del suo
operare rifletta una visione del mondo armonica e giustificata, e sulla base di
questo riconosca, listino di borsa dell’arte in genere, ciò che conta e ciò che
non conta, quel che conta di meno e quel che conta di più, cosa abbia valore
documentario, sociologico e letterario e cosa sia arte, letteratura assoluta.
Nell’oceano tempestoso dell’egualitarismo massificato – politico, artistico –
il problema della critica letteraria trova il suo compimento nel problema del
romanzo, e può valere anche il contrario. Il problema del romanzo non è più – e
non è solo – nella sua realizzazione, nella ricerca del romanzo che faccia
progredire la sua storia, la storia della sua forma e delle sue declinazioni –
che contribuisca all’evoluzione cioè del romanzo come forma che riassume in sé
la questione dell’arte, dell’espressione dell’uomo nel più alto svolgersi dell’opzione
artistica, che crei poesia e immagine con quello strumento razionale e mediato
che è la parola, la lingua, e la lingua nella sua costruzione più arditamente
progettuale, non il verso ma la prosa; esso è oggi, soprattutto, il problema
del romanzo come concetto, e di ciò che lo invade e inquina e inficia nella sua
idea pura di forma d’arte e espressione e interpretazione dell’uomo e dell’arte,
il problema cioè di una forma che, assoluta nei suoi esiti più alti, è stata
piegata a spiegare e definire di tutto, così inflazionando la parola,
consentendo l’invasione di forme d’arte minori o secondarie, contribuendo a
aumentare confusione e rumore intorno alla sua essenza prima e più autentica,
al suo essere cioè, costantemente, una forma che prova se stessa e che, quando
si prova, non può non rispondere a se stessa in quanto forma – in quanto cioè
forma che ha precedenti e cioè una tradizione cui rispondere, anche sovvertendola
o non tenendone conto, ma cui comunque rispondere – e in quanto struttura – di pensiero,
di azione, linguistica e tematica, di contenuti e vicende che sono la
dimensione tutta individuale dell’autore nel suo desiderio o nella sua
vocazione a farsi seme di universale, luogo di agnizione comune seppur
particolare.
Il discorso del problema del romanzo,
quindi, se in sede artistica – nella creazione del romanzo – è complesso e
continuamente sospeso tra le sue possibilità e l’ostacolo della storia – come passato,
come presente – in sede critica è addirittura quasi impossibile, spostato tutto
su posizioni che, radicali sempre, sono sempre, o quasi, posizioni che
presuppongono una abdicazione.
Il critico che valuta i romanzi oramai o
li valuta di per sé, abdicando cioè alla prospettiva storica e artistica che
dovrebbe farne emergere il valore – valore estetico che è quindi, e solo
quindi, un valore declinato in senso materiale: temporale (il romanzo che
resta) e spaziale (il romanzo che incide) – o li cataloga senza valutarli,
abdicando al ruolo di critico (il setaccio) e a quello di storico (il
cannocchiale) a favore di quello di catalogatore che sospende il giudizio in
attesa di una ridefinizione dei termini e dei parametri critico-estetici della
storia dell’arte.
Tutto, ovviamente – questo l’assunto
cardine da cui discendono oggi tutte le possibilità e tutte le libertà – è lecito:
soprattutto è lecito sospendere il giudizio in una situazione, questa, di
assestamento, di miopia data dalla ridefinizione dei campi del sapere in ogni
loro forma, a partire dagli strumenti stessi (informatica e via dicendo). Ma proprio
perché leciti, questi atteggiamenti dovrebbero essere, da una critica attenta e
forte, assunti e superati, tenuti in conto come premesse e quindi trasformati
in posizioni dalle quali partire per poi svolgere la propria opera di
selezione, con maggior rischio – esilità della posizione – ma maggiori
possibilità di incidere effettivamente sull’arte – la vittoria dell’eterno sul
transeunte, del libro sul prodotto, del bello sul piacevole. In questo senso, è
raro oramai trovare una critica che interroghi il problema del romanzo con la
presunzione, l’irritante nazionalismo, l’aforistica attitudine che spesso non
svolge le intuizioni, ma anche con l’acribia unica, la perizia e la fortezza di
un pensiero forte che informa tutto il discorso, la coscienza della vastità del
problema e della sua ineludibile insolvibilità – il suo essere, il problema e
la sua soluzione, pendolo necessario alla costruzione ed evoluzione (alla
vitalità) della forma d’arte stessa del romanzo – come quella di cui dà prova
Richard Millet nel libro del 2010 L’inferno
del romanzo. Riflessioni sulla postletteratura edito, da noi, da
Transeuropa, tradotto da Stefania Ricciardi e introdotto acutamente da Carlo
Carabba. Millet, libano-francesce classe 1953, critico, scrittore, celebre per
le sue posizioni controcorrente in termini di politica, società civile e letteratura
in Francia, in questi 555 pensieri – appunti che diventano aforismi,
riflessioni che aprono a possibili svolgimenti critici, accenni che implicano
giudizi sul passato, la storia d’Europa e dell’arte occidentale – cerca di
svolgere il problema del romanzo partendo da ciò che è diventato il suo campo d’azione
e di riflessione, la crisi che attraversa cioè la critica e l’editoria, per cui
non solo il romanzesco è diventato il termine chiave per vendere qualsiasi
cosa, ma per cui esso è oggi il luogo eletto dell’azzeramento della diversità,
della specificità, della somma cioè di particolare e universale che solo in un
armonico connubio rendono possibile che l’opera sia più che prodotto e diventi –
che sia – arte. Si può contestare tutto, del pensiero di Millet, dalla sua
struttura assente, appunto, diaristico-aforistico-pamphlettistica, alle sue
idiosincrasie, dalla letteratura omologante di lingua inglese alla poca
sopportazione per le letterature straniere in genere, dal disprezzo per la
giovane narrativa che scrive in una lingua piatta e già potenzialmente
traducibile alla quasi completa dedizione e devozione al Modernismo, al suo
mito e a chi vi operò – Musil, Broch, Proust e gli altri – tutto si può fare:
ma per contestare l’operazione che Millet conduce sul corpo vivo e malato del
romanzo e su quello ancor più in agonia della società occidentale – e della
società in toto – bisogna assumersi
il rischio di una critica che non ponga al vertice della sua ragione il suo
essere inconfutabile giacché – apologia finale – il gusto regna dove tutto il
resto manca, Norimberga del pensiero, bensì quello di una critica che riconosca
a se stessa, e alla letteratura quindi, un ruolo e una funzione che non sono
mai passati o mai diventati obsoleti – quel ruolo e quella funzione che soli le
rendono possibile il riscatto, la salvezza, come materia e come luogo d’elezione
della riflessione intellettuale e artistica. Come il romanzo o è un’esperienza
assoluta o non è, così la critica letteraria o assume il tragitto compiuto – lo
sgretolamento della sua auctoritas e
la necessità quotidiana di legittimarsi in quanto tale, sempre ridefinendo parametri
e riferimenti – e quindi opera in linea con queste premesse ineludibili, senza
fingere che tutto ciò non sia accaduto, e quindi decide di esprimersi correndo
il rischio dell’atto di discernimento, della sua opinabilità ma anche della sua
assoluta libertà in condizione di piena coscienza, oppure essa non sarà, non
sarà critica letteraria, non lo sarà più.
Quello che Millet obbliga a fare, ed è
per questo che il suo libro merita lettura, è i conti con una forma – la critica
letteraria – come non si è più abituati a considerarla: dibattito altissimo
che, tenendo conto dello sfarinamento intellettuale, sociale, economico e
artistico dell’Occidente, non rinuncia a esprimere un giudizio e a operare una
critica e quindi una selezione dell’esistente, dell’arte prodotta ai giorni
nostri, senza che gli ultimi trent’anni ne ostacolino la forza, e comunque non
più di quanto gli ultimi quattrocento avrebbero potuto bloccarne ogni
evoluzione o esito.
Nelle mani di Millet, il problema del
romanzo, sfaccettato, prismatico, continuamente messo alla prova della
contemporaneità (egli legge autori classici con occhi contemporanei – disposto,
se sia, a stroncarli o rivalutarli, ridefinirli nel canone, senza tema verso
gli Eroi delle storie letterarie e gli Intoccabili del romanzo in genere) è
posto in tutta la sua complessa vastità, e al termine della lettura si ha la
sensazione della possibilità di una critica più serena – consapevole delle
proprie premesse – del contemporaneo, che nonostante tutto è ancora definibile,
catalogabile e criticabile, con termini e criteri usuali, senza la necessità di
sottomettersi alla dittatura del gusto, all’imperio del piacere, alla
sottomissione del bello al piacevole, della critica all’opinione. Il problema
del romanzo, che è il problema dell’arte ed è un problema che dall’arte si
sposta alla società e alla cultura dell’Occidente – e del mondo tutto, oramai –
diventa, in questo libro, qualcosa su cui è ancora possibile riflettere,
rintracciando opere che contribuiscano al suo svolgimento e prodotti che sviano
dal percorso, senza chiusura verso forme e generi non precipuamente letterari
(il melodramma italiano del Seicento o la Hollywood del primo Novecento come “forme
romanzo” esemplari della cultura che le espresse) e con la consapevolezza che
il solo modo di fare storia dell’arte oggi è rilanciare – l’importanza del
giudizio, della cultura, della preparazione, dalla cognizione della vastità del
mondo e dell’opera d’arte variamente declinata – senza cercare giustificazione
all’atto vano dell’opinione di gusto, ma ribadendo la legittimità dell’atto
sensato del giudizio letterario, estetico, artistico, che all’arte
contribuisce, al suo svolgersi, al suo evolvere, e quindi alla cultura tutta, e
di converso alla società ove questa operazione si compie.