Scrittori in ascolto: intervista a Riccardo Gazzaniga, autore di "A viso coperto"


A viso coperto (Einaudi, 2013) è un romanzo che gioca con gli specchi costruiti attorno a tre coppie oppositive, vite comuni: un infermiere, un addetto alla macelleria di un supermercato, un dipendente del ministero dell’interno. 

Tutti e tre si nascondono dietro una sciarpa e si chiamano Lollo, Lupo e Ale. Di là ci stanno le visiere e i caschi d’ordinanza della celere: Nicola, Gianluca e Ferro. Ed ecco gli specchi, ce li racconta proprio l’autore della storia: Riccardo Gazzaniga.
Lollo e Nicola, Ale e Gianluca, Lupo e Ferro. Amano allo stesso modo, si lacerano allo stesso modo, condividono lo spirito del clan nello stesso modo. Solo che i rispettivi clan si odiano. I loro destini incrociati servono a mediare la coralità del romanzo, anche perché di personaggi ce ne sono altri. E pensare che “A viso coperto” era nato da un racconto breve dove si confrontavano un ultrà e un poliziotto. Ma la realtà, sia quella delle curve sia quella dei reparti mobili, è sfaccettata, composta da persone diversissime. Inutile ricordi gli studi recenti su chi popola gli stadi, non si tratta certo di delinquenti abituali ma di soggetti che hanno un mestiere e una famiglia, con i minorenni in forte crescita. Così, lo stesso, dietro i volti coperti dei celerini. Per dare voce a tutti, da un racconto impostato come un classico duello sono arrivato a una romanzo collettivo.


Nell’ambito della curva genoana dello stadio di Marassi, alcuni giovani decidono di fondare un nuovo gruppo piuttosto incazzato: Facce Coperte. Il palcoscenico è il capoluogo ligure e tanto per accentuare l’atmosfera plumbea scegli come tempo dell’azione undici giorni di gennaio. A gennaio immagino che Genova sia fredda e umida, uno di quei freddi del nord che ghiaccia prima i cuori e poi le ossa. Infine c’è una cappa, lontana, vicina, non lo so: i fatti del G8. Ricordo a chi ci legge che nella vita sei dipendente della polizia di Stato e lavori proprio alla caserma di Bolzaneto. Lo chiedo a te: sono vicini o lontani quei giorni del 2001?
Complesso dirlo. Sai, il G8 mi è stato vicino per anni. Ogni volta che dicevo a un qualsiasi interlocutore: lavoro a Bolzaneto, come minimo calava un silenzio tombale. Il G8 è allo stesso tempo lontano perché la polizia ha preso atto degli errori di gestione compiuti in quella situazione e ha adottato le contromisure adeguate. Voglio dire che la prima vittima di quei giorni è stata Genova, nelle sue componenti, umane e materiali. Chiaro che con il tempo tutto sfuma sempre un po’ ma il G8 torna vicino ogni qualvolta l’attenzione si focalizza su un evento simbolico, di grande risonanza, che suscita attese, proteste e minacce. Io, ad esempio, sento salire una preoccupante tensione attorno all’Expo milanese.

Durante il tentativo di introdurre uno striscione non autorizzato dentro Marassi, un ragazzo rimane ferito dalla manganellata di un agente che tenta di impedirglielo. L’episodio avrà tragiche conseguenze nelle vite dei tifosi e dei poliziotti del reparto mobile di Genova. Lo striscione: quale significato riveste nella mitologia ultrà?
Lo striscione è la vita e la morte. Uno striscione portato per gli stadi italiani per anni da un gruppo è un modo per dire: noi esistiamo e mettiamo la nostra bandiera ovunque, l’Everest non ci fa paura, siamo in grado di scalarlo. Se un gruppo perde uno striscione scompare dalle scene. Questo specialmente in Italia, in altre realtà calcistiche, come quella inglese, dove gli striscioni sono banditi e non hanno avuto grande diffusione, contano molto più gli inni. A proposito del confronto con altri paesi, in Italia la situazione è strana e difficile da gestire. Intanto perché a volte ti mandano a un derby di fuoco e la domenica si trasforma in una scampagnata. Ti mandano a Imperia-Sanremese o a qualche piccolo derby toscano e succede casino. Le norme sono elastiche in Italia: in Inghilterra no è no e vige la certezza della pena. Da noi sul fare entrare uno striscione o persone senza biglietto o autorizzare un corteo non previsto è ni: dipende dalla situazione, da quanti sono i tifosi, dal cima generale che si è creato negli spalti, insomma… siamo più malleabili. Questa elasticità, a volte permette di limitare gli incidenti, ma sul lungo periodo lascia un’impressione di debolezza in cui alcune persone si sentono autorizzate a fare come vogliono.

Le coppie di cui abbiamo parlato all’inizio dell’intervista devono arrivare, in modo piuttosto convulso, allo scontro decisivo dove, questo è il tuo intento, le differenze tendono ad annullarsi. Cosa resta dopo la violenza?
Lollo e Nicola, Ale e Gianluca, Lupo e Ferro ci dicono, spero senza eccessiva retorica, che l’esperimento delle coppie opposti/uguali sviscera il sentimento primordiale della lealtà, una molla potentissima, specie se declinata al maschile. A un certo punto però bisogna scegliere tra amici e amori, tra affetti e gruppo stesso. Questi strappi tormentati arrivano puntuali. La dinamica interiore è peggiore dello scontro fisico. Si soffre di più per un tradimento, fatto o subito, che per un cazzotto. Ho creato una serie di personaggi partendo da un aspetto: un volto coperto. Poi la domanda da porsi è: cosa si nasconde dietro? Quindi c’è la logica del gruppo, il rapporto tra il singolo e gli altri membri. Infine, il problema del fare i conti con se stessi anche a dispetto del gruppo. Non tanto per cercare chissà quale redenzione, piuttosto perché il momento della lacerazione arriva inesorabile. Bisognerebbe giungerci preparati, ma questo non succede.

L’ultima finale di Coppa Italia si è giocata perché gli ultrà del Napoli hanno deciso così. Una Atalanta-Milan, la domenica di Gabriele Sandri, venne interrotta dai tifosi bergamaschi. Quando si dice che certe curve tengono sotto scacco le società corrisponde al vero?
C’è stato un periodo in cui le società hanno pagato trasferte e coreografie a gruppi ultrà sostenendoli economicamente. Ora, questo è il classico caso del giocattolo che sfugge dalle mani del manovratore e il potere condizionante di certe tifoserie è indubbiamente elevato. Devo comunque dire che nel caso della finale di Coppa Italia, la scelta è stata fatta in funzione di una garanzia maggiore di ordine pubblico. Il corretto deflusso di 70.000 persone in uno stato di eccitazione e nervosismo non sarebbe stato semplice.

Mi dai un giudizio sulla tessera del tifoso? E che esperienze personali puoi raccontarci?
Da quando è entrata in vigore la tessera del tifoso, per quanto si presti ad alcune critiche, specie sulle interdizioni alle trasferte che a volte danneggiano anche tifosi “tranquilli”, il numero di incidenti è diminuito e il nostro lavoro ne ha tratto dunque indubbi benefici. Le tifoserie l’hanno molto avversata. Ricordo un giorno a Bergamo, volevano contestare appunto la tessera e Maroni. Si presentarono in 500 e noi eravamo 30. Vennero in corteo in silenzio, in una strada stretta e in discesa, verso di noi schierati. Ecco, possiamo parlare di esperienze personali, adesso. Ricordo la paura, quella sera, perché sapevamo che se ci fosse stato uno scontro in quella situazione qualcuno si sarebbe fatto molto male da entrambe le parti. Invece un tizio urlò: “ragazzi calmi, che se vogliamo questi sbirri li asfaltiamo, ma oggi non ce l’abbiamo con loro!”. Volevano solo contestare Maroni e poi lo fecero, danneggiando auto e lanciando oggetti altrove, ma evitarono un impatto diretto con noi. Credo che anche loro ebbero consapevolezza del rischio che si stava correndo tutti quanti in quel preciso momento.

Quali reazioni ci sono state all’uscita del libro?
É un libro che ha venduto e fatto discutere molto, sia tra i colleghi che tra i tifosi. Ho ricevuto tante mail di complimenti, mi sono confrontato e scritto con ragazzi che lavorano in altre forze di polizia e anche con ultrà, soprattutto alcuni che avevano lasciato le curve essendo invecchiati e riconoscevano i limiti di certe dinamiche. Qualche ultrà non ha gradito e mi ha mandato messaggi non proprio affettuosi, in qualche caso minacciando di venire alle mie presentazioni. Ma io ho sempre cercato di stemperare ogni tensione e rinunciato a un paio di eventi che potevano diventare problematici. Magari sarebbe stata un’occasione potente di visibilità mediatica ma non mi interessava e non sarebbe stato corretto rispetto al mio ruolo lavorativo. Io i problemi di ordine pubblico devo risolverli, non crearli.

Marco Caneschi

Riproduzione dell'immagine autorizzata dall'autore