di Nickolas Butler
Marsilio, 2014
traduzione italiana Claudia Durastanti
pp 318
18,00
Questi uomini, questi uomini che si conoscono da tutta la vita. Questi uomini che sono nati tutti nello stesso ospedale, tirati fuori dalla stessa ostetrica. Questi uomini che sono cresciuti insieme, che hanno mangiato lo stesso cibo, cantato negli stessi cori, frequentato le stesse ragazze, respirato la stessa aria. Si girano attorno con un linguaggio tutto loro e il loro sistema di segnali invisibili, come animali selvaggi. Qualche volta si accontentano di stare solo in reciproca compagnia, a passeggiare nella foresta o a fissare il televisore, o a girare le bistecche sul barbecue. [...] Se non fosse per i sorrisi perennemente tatuati in faccia, penseresti che non ne possono più l’uno dell’altro o che sono attraversati da una rabbia inspiegabile.
È una storia di uomini Shotgun Lovesongs, sorprendente romanzo d’esordio dell’americano Nickolas Butler. Romanzo di formazione ad alto tasso di testosterone, ambientato in quell’America rurale di provincia che negli ultimi anni pare essere diventata sfondo ed ispirazione ideale per raccontare la vita. Butler lo fa con inaspettata poesia, scegliendo un immaginario paesino del Wisconsin, Little Wing, per dare voce a quattro uomini, quattro amici cresciuti insieme tra sogni, alcool – moltissimo alcool - , successi e fallimenti e quindi diventati adulti, finchè la vita non si è messa in mezzo minacciando di distruggere ogni cosa. «La vita era successa», la lontananza, le incomprensioni, le rivalità e un segreto pesante come il cielo si insinuano in quell’amicizia che dura da tutta la vita.
Partiamo appunto dai quattro protagonisti della storia, voci che si alternano nel racconto – ma stilisticamente senza mai distinguersi davvero l’una dall’altra – a cui si lega quella di Beth ad aggiungere alla storia un punto di vista femminile: Kip, da poco tornato a Little Wing fiero della fortuna che è riuscito a costruirsi a Chicago; Ronny, la prima celebrità del paese, stella del rodeo la cui carriera era finita bruscamente dopo un terribile incidente. E poi ci sono loro, Lee ed Henry, tanto uniti quanto diversi: il famoso cantautore di successo, circondato da donne e fan che lo seguono nei suoi concerti in giro per il mondo, e il solido agricoltore che ha rilevato la fattoria di famiglia e costruito la propria vita lì in paese insieme a Beth, la donna che ama fin da quando erano ragazzini. Vite assai differenti, aspirazioni e caratteri contrastanti, eppure ancora legate da un’amicizia viscerale, profondamente maschile, capace di resistere al tempo e alla lontananza, ma messa ora alla prova da incomprensioni, segreti e rivalità che potrebbero dividerli in maniera definitiva:
[..] mi resi conto che un equilibrio era cambiato, che non erano più amici, o amichevoli tra loro, ma solo due uomini che non si piacevano, che non condividevano più nulla se non una comune geografia. Qualsiasi intersezione nelle loro vite, da allora in poi, non sarebbe stata che una coincidenza.
C’è la gelosia per la vita dell’altro, per il successo e le gratificazioni economiche o per la stabilità famigliare, antiche rivalità e tensioni, insicurezze, frustrazioni e passi falsi. Perchè in fondo «credi di conoscere qualcuno, ma non potrai mai conoscerlo per davvero».
Ma adesso, qui a Little Wing di nuovo riuniti in occasione del matrimonio di Kip, per un po’ è solo tempo di ritrovarsi, stare insieme riscoprendo quella complicità tutta maschile di cui noi donne siamo spesso testimoni, incapaci però di comprenderne appieno i meccanismi. Sono serate ad alto tasso alcolico, durante le quali dimenticare per un attimo i problemi del quotidiano e tornare giovani, spensierati e irresponsabili. Seduti su un silos a guardare il sole tramontare come facevano da ragazzi, quando i colori del cielo di Little Wing impregnavano l’aria di note che solo Lee sembrava sentire:
Ma i tramonti. Fu lì che capii per la prima volta che Lee era diverso da noi, che forse era persino destinato a diventare famoso. Perché nei dieci o venti minuti prima che il sole si estinguesse completamente a ovest, ci chiedeva sempre di restare in assoluto silenzio. E non so perché, ma noi gli davamo retta, gli obbedivamo. E ci sedevamo lì, a bere le birre dei nostri padri e a guardare il cielo camaleontico, per ascoltare lo show di Lee. «Lo avete sentito?» diceva, il che non era una vera domanda quanto un'affermazione. «Sentite quel suono, quella nota? Giuro su Dio, quel colore lì, quel rosa. Quando quel rosa inizia a impallidire davvero, è come se emanasse questa nota, non riesco a descriverla, è morbida e alta. E lo sentite quell'arancione? Non l'arancione marmellata, ma quello color pesca? Lo sentite? Cavolo, non vedo l'ora che arrivino i blu! I blu e i viola! E poi quell'ultima nota lunga, nera e bassa, quella nota riverberante di basso che dice: «Vai adesso, buonanotte. Buonanotte America, buonanotte».
Difetti come si diceva che tuttavia vengono abbondantemente superati dai tanti pregi del racconto di Butler: oltre alla trama che cattura il lettore pagina dopo pagina, la capacità di rendere così umani i personaggi, contraddittori, complessi, reali tanto nelle misere debolezze quanto negli slanci più sinceri, impegnati nella ricerca della felicità, del successo, della vita che si è scelto di vivere o adattandosi meglio che si può a quella che il destino ha scelto per noi. E come uomini reali non sono mai del tutto perfetti ed assoluti, ma hanno colpe e difetti che non sempre sono in grado di perdonare.
E poi il Wisconsin o più precisamente la cittadina di Little Wing è parte integrante e fondamentale di una storia profondamente americana eppure allo stesso tempo capace di uscire dai confini geografici e culturali con i numerosi spunti di riflessione e le tematiche che il testo offre al lettore. Quel paese natale a cui Lee, nonostante il successo, continuamente fa ritorno, l’unico luogo che può davvero chiamare casa, dove la vita sembra più «autentica, genuina» e ritrovare la propria voce insieme alla compagnia delle persone che lo conoscono davvero:
Quando non ho nessun posto dove andare, torno qui. Quando non ho niente, torno qui. Torno qui e dal niente tiro fuori qualcosa. Posso vivere ai limiti della sussistenza; non c’è niente da comprare, nessuno da impressionare. Da queste parti tutto ciò che importa alla gente è la tua etica sul lavoro e la tua gentilezza e la tua competenza. Torno qui e ritrovo la mia voce come qualcosa che mi è scivolato dalle tasche, come un souvenir sepolto a lungo. E ogni volta che ritorno sono circondato da persone che mi amano, che si occupano di me, che mi accolgono sotto una tenda di calore. Qui riesco a sentire le cose, il mondo pulsa in maniera diversa, il silenzio vibra come una corda pizzicata milioni di anni fa; c’è musica tra i pioppi tremuli e gli abeti e le querce e persino tra i campi di mais essiccato. Come fai a spiegarlo a qualcuno? Come fai a spiegarlo a qualcuno che ami? Cosa succede, se poi non capisce?
L’America rurale che si adatta ai cicli della natura e ai suoi ritmi, la provincia abitata da persone semplici e concrete che ancora una volta è la voce di Lee a descrivere perfettamente:
L’America, per me, è gente povera che suona musica, gente povera che condivide il cibo e gente povera che balla anche quando tutto il resto nella loro vita è così triste e disperato che sembra non debba esserci alcuno spazio per suonare, mangiare o abbastanza energie per ballare. E le persone diranno che mi sbaglierò, che siamo una nazione puritana, una nazione evangelica, una nazione egoista. Ma io non lo penso. Non voglio pensarlo.
Richiama alla mente l’America cantata da Springsteen e Dylan, da Jonny Cash e Neil Young, colonna sonora ideale per questo romanzo lirico in cui anche la musica, insieme ai mille colori del cielo sopra Little Wing, ha un ruolo importante e che pagina dopo pagina ti mette addosso una voglia irresistibile di tornare a casa, ritrovare i vecchi amici di quando eri solo un ragazzino che sognava di andarsene dall’odiatissima provincia; o fuggirvi adesso, comprare un biglietto di sola andata per l’America e, seduti sulla cima di un silos, scoprire se davvero lo spettacolo dell’alba vista da lassù può farci intravedere qualcosa del nostro futuro:
Mi piacerebbe farvi vedere un’alba dalla cima di un silos del grano, il nostro grattacielo della prateria. Mi piacerebbe farvi vedere quant’è tutto verde durante la primavera, quanto sono gialli i fiocchi di mais anche pochi mesi più tardi, quanto sono blu le ombre del mattino, e i torrenti che svolgono i loro percorsi lenti, la terra che rotola e rotola ancora, borchiata qui e là da orgogliosi fienili rossi, da aziende agricole bianche, da strade ciottolate pallide. Il sole che sorge a est così rosa e arancione, così grande. Nelle fosse e nelle valli, la nebbia che si addensa come un fiume lento di vapore in attesa di essere bruciata viva.