TRE ROMANZI DELLA
TRASFORMAZIONE: “I PANTALONI D’ORO”, “MELAMPUS”, “CIMA DELLE NOBILDONNE”.
Determinante negli
ultimi anni, eterno nel suo svolgersi, il tema della trasformazione è costante
della letteratura, al punto da essere tòpos, tratto distintivo, tema carsico di
tanta produzione letteraria ad ogni altezza, forma e genere, e infine mito,
leggenda, classico. Come metamorfosi, evoluzione e cambiamento, ritorno alle
origini o riscoperta di sé, affondo a piombo nella spirale della psiche, tuffo
nelle profondità di carni che brulicano di segni diversi e che proliferano e
trasmutano, oltre che passaggi e attraversamenti di lingue, la trasformazione attraversa il romanzo e la
poesia sia nei testi dove essa più si fa palese, tema cardine, sia in altri, in
cui carsicamente serpeggia, strisciandovi intorno, senza farsi intendere
apparentemente, poi rivelandosi. Ultimi esempi nelle lettere occidentali, a
mostrarne la vitalità, la bella e divertita epica dell’Ermafrodito
greco-americano di Middlesex (Mondadori,
Premio Pulitzer 2003) di Jeffrey Eugenides, grande del romanzo americano il cui
pezzo migliore rimane ancora Le vergini
suicide (Mondadori, 1993), in cui pure l’inquietudine dell’attraversamento,
della trasmutazione, della forma mai quieta e risolta, si concreta, lungo tutto
l’arco del racconto nell’oscillare tra morte e vita, colpa e innocenza, coro e
individuo; il bel romanzo di formazione
e storia americana di John Irving, In una
sola persona (Rizzoli, 2012), dove la coscienza sessuale si assume e dismette
di continuo, slittando e sfuggendo a categorie e definizioni, come i personaggi
che intorno al protagonista si muovono, parenti attori per gusto del
travestitismo, primi transessuali o travestiti in una provincia americana ove
ancora questo era impensabile, amanti o amati che si riveleranno anch’essi
artefici di inaspettate e stupefacenti trasformazioni; la trilogia della
trasmutazione di Camilleri, perla della sua narrativa, Maruzza Musumeci, Il casellante, Il sonaglio (Sellerio, 2007, 2008, 2009), di dolce e ironica
bellezza, dove gli echi sabbatici e metamorfici della Pietra lunare di Landolfi (Adelphi, 1937), pietra miliare del
genere e del tema nel Novecento italiano, si fondono con la lingua sapida che
fa di Camilleri un degno erede di Bonaviri.
Dunque, un tema dalle
infinite possibilità e declinazioni ha trovato, lungo il XX Secolo, i suoi
archetipi nella Metamorfosi di Kafka
(1915) e, in Italia, nella Pietra lunare
di Landolfi, e ha continuato a affascinare gli scrittori, che con esso,
appuntamento destinato, vi si sono confrontati con spesso felici risultati.
Da ciò partendo, i tre
romanzi di cui si scrive, I pantaloni
d’oro, Melampus, Cima delle nobildonne, scritti
rispettivamente nel 1968, nel 1970, nel 1985, sono scelti come riferimento tra
i massimi nella stesura o ideazione di un canone per una letteratura della
metamorfosi, di una letteratura della trasformazione nel Secondo Novecento
italiano, perché in essi la trasmutazione, la metamorfosi non si esaurisce in
una evoluzione o involuzione, in una trasformazione, conclusa la quale il
racconto pure si chiude, bensì essa intride il racconto e lo distorce,
rendendo, in tutti e tre i romanzi, imperscrutabile la trama, sfuggente il
significato, indecifrabile l’intera operazione. Si tratta poi, di tre romanzi
per diverse ragioni dimenticati, sottovalutati, di tre autori troppo presto
definiti e criticamente risolti, che invece meriterebbero altra e più degna
attenzione.
Pubblicato nel 1968
nella collana “I Narratori” di
Feltrinelli, che accolse per anni una prosa di alto livello e narratori di
prima qualità, molti dei quali oggi dimenticati, I pantaloni d’oro è il romanzo
più stupefacente del torinese Gian Piero Bona (1927), aristocratico di
vocazione mitteleuropea, poeta, scrittore e esoterista. Il romanzo è incentrato
sul concetto di Sirenismo,
metamorfosi psico-sessuale che, “presto o tardi, tocca ogni essere; ma il
poterla vedere è prerogativa assai rara. Infatti quando un essere muta diventa
criticamente invisibile. In questa fase tutto gli è possibile, anche lo
sdoppiamento, la pluridentificazione, la dissoluzione o il risveglio”. Un
romanzo il cui significato sfugge continuamente al lettore, come d’altronde
sfugge la voce narrante, che continuamente slitta, si sdoppia, si sposta e
costringe ad essere inseguita, mentre racconta le peripezie di una “generazione
di irrisolti”, di disperati, aristocratici, soldati mercenari, marchette e
prostituti, ladri, mentecatti, quasi tutti dediti al travestitismo, tra luoghi
e scenari misterici, cupi e surreali, dove la morte continuamente aleggia,
prendendosi le sue vittorie sugli uomini e che, riprendendoseli, ne riscatta
una vita indefinita e perduta. Scene di amplessi – l’orgia delle sirene, il
rapporto tra l’aristocratico Erbiani e il soldato-prostituto Giacinto –
intervallano riflessioni sull’esistenza, sul criptico che è in ogni cosa, su
ciò che si cela dietro ogni evidenza, e che ogni evidenza, quanto più limpida
possibile, tanto più inestricabilmente nasconde, cela. Il romanzo del
sirenismo, in cui la trasformazione non è mai esternata, totalmente dichiarata,
è romanzo di mutazione continua, in cui nessuno è uguale a sé, tutti si
nascondono e si dissolvono, ricomparendo in abiti e scene sempre diverse,
inquietanti, mai del tutto chiare. Indecifrabile, questo romanzo è il grande
romanzo di Bona, che pure con Il soldato
nudo (Lerici, 1960) – storia di amori omosessuali nel mondo militare –
aveva scosso la critica e catturato un pubblico.
Nonostante incipit formidabili
e un alto tasso di inquieta indecifrabilità e densità semantica – oltre che uno
stile levigato e un italiano fitto di echi landolfiani e gaddiani, profondo,
mitteleuropeo, alto e bello – i successivi Le
dimore inquiete (Rizzoli, 1975) e Passeggiata
con il diavolo (Garzanti, 1983) non hanno sortito uguale successo né esiti
altrettanto alti. Rimane questo sfuggente mondo di metamorfosi, che pervade il
romanzo del 1968 e lo consegna a noi, romanzo irripetibile, unico, bello nella
sua indefinibile e polisemica identità.
Nel segno della
metamorfosi animale, Melampus (1970),
lo straordinario romanzo di Ennio Flaiano (1910 – 1972) da cui fu poi tratto il
film di Marco Ferreri, La cagna, è
una storia di una struggente malinconia canina, una storia d’amore che rivela,
mentre ironicamente dissimula e mistifica la sua tragica essenza, la potenza
dell’amore, la sua irreversibile forza di tutto cambiare e stravolgere,
imponendo a chiunque vi si accosti un confronto con sé e con tutto ciò che fino
a poco prima era chiaro e privo di dubbi e che ora, travolti dall’inquietudine
e dell’inspiegabile dell’amore, si fa incerto, instabile ed inquieto.
L’amicizia tra Giorgio Fabro e Liza Baldwin, a New York, nata per far
accoppiare i rispettivi cani, in breve diventa una storia, una liaison, che
lentamente, andato via Melampo, il cane di Giorgio, da casa, pare trasformare
lei, Liza, in qualcosa di sempre più simile a un cane. Atteggiamenti,
comportamenti, gesti e mugolii: Liza si fa canina, mano a mano che il suo amore
cresce, per Giorgio. Una trasformazione amorosa che tuttavia a Giorgio risulta
inspiegabile e che anzi, lo spinge a cercare, per Liza, una cura, una terapia.
Ma il mondo gira alla rovescia, o forse è Giorgio a non aver capito: Liza,
finita dallo psicologo per il suo affetto canino, finisce per innamorarsi di
questi e di con lui finire. Rimane, dunque, Giorgio, inconsolabile, incompreso
perché forse non ha mai compreso niente, finanche l’amore, quando l’ha avuto,
quando l’ha conosciuto, in quella forma assoluta che è dei cani, e che Liza –
incredibile – aveva mutuato.
Per uno scrittore come
Flaiano, sempre troppo sbrigativamente gettato nello scomparto dei formidabili battutisti, degli umoristi e
dei grandi aforisti della nostra letteratura, questo romanzo costituisce,
insieme a Tempo di uccidere (Rizzoli,
1947, primo Premio Strega) una prova altissima, in cui senza un pizzico di
presunzione, con una lingua sempre brillante, uno stile umoristico e un tono
mai serioso – anzi un’umiltà che molti dovrebbero imparare – si toccano temi
eterni dell’uomo, dell’arte e del mondo: l’amore e le sue rivoluzioni, la
donna, il rapporto tra l’uomo e la città, l’arte e la ricerca del romanzo – la
ricerca della storia perfetta.
Acme
dell’imperscrutabilità, romanzo dal tasso di misteriosità e indecifrabilità
altissimo, quasi irraggiungibile, la seconda e ultima prova di Stefano
D’Arrigo, Cima delle nobildonne
(Rizzoli, 1985), è anche il suo grande capolavoro. Ingiustamente dimenticato,
dopo la prova di Horcynus Orca
(Mondadori, 1975) – vent’anni di gestazione e stesura, 1257 pagine ininterrotte
intorno all’Odissea di guerra e peregrinazione di 'Ndria Cambrìa, novello Ulisse e Achab, che
rivergina la mitologia della balena, immergendola nel mare plurilinguistico
siculo-italiano tutto reinventato, in una epica di trasformazioni continue di
delfìfere, del mare che si fa assassino e innamorato, della terra e degli
uomini stessi – Cima delle nobildonne è un romanzo dove il concetto misterioso
e fragile di placenta crea, per affinità, vicinanza, contiguità, una trama,
esile e potente, straordinaria nella sua complessa rete di significati, in cui
si ripercorre la storia dell’umanità, dall’Egitto di Hatshepsut, faraone donna,
ad una ardita operazione di neovagina compiuta su di un ermafrodito –
anch’essa, per amore – fino all’apparizione di un placentologo, una lunga suite su una Placentateca, fino a “un
finale spiazzante” in cui nulla è davvero chiaro, e una pellicola, sottile e
fragilissima, avvolge tutta la narrazione, rendendola imperscrutabile nella sua
asciutta nettezza. Una nettezza – una tersa chiarità – che tutto nasconde,
avvalendosi di un linguaggio tecnico scientifico piano e chiaro, anch’esso,
come nel precedente del 1975, rivisitato da D’Arrigo in levigate costruzioni
sintattiche che aumentano il livello di indecifrabilità del romanzo.
Tre romanzi sulla
trasformazione, tre romanzi della metamorfosi, che Bona, Flaiano e D’Arrigo,
reinventando la lingua italiana, e declinandola originalmente, hanno consegnato
alla letteratura italiana. Immersa nel corso dei temi più incisivi dei nostri
anni, la storia letteraria si dimentica di questi esempi di stile, di romanzo,
di problema romanzo risolto senza perdere mistero, spessore, densità. Oggi, che
il concetto di spessore del testo – di sua imperscrutabilità o di continua necessità
di rileggere per capire, carpire un senso che si fa sempre sfuggente – è continuamente
tenuto da conto nel valutare le prove letterarie contemporanee, questi tre
romanzi si offrono come esempi vivi e anticipatori – che rivisitano e
riscattano un tema antico quale quello della metamorfosi – per la nostra
letteratura. Di questi libri (e autori) dimenticati in fretta o in fretta
etichettati è fatta – molta – della nostra migliore letteratura.
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