di Caterina Falconi
Galaad Edizioni, 2014
pp. 152
€ 12
Fiore, dottoressa di un poliambulatorio situato a ridosso di un
centro commerciale, ha alle spalle una intensa storia d’amore con
un medico francese conosciuto in Africa; nonostante quest’uomo sia
scomparso nel nulla da dieci anni, o forse proprio per questo, egli
ingombra ancora con la sua presenza i pensieri quotidiani della
protagonista di questo breve romanzo.
Attraverso le parole di una narratrice esterna (assente nel caso
di Fiore, unico personaggio ad avere il privilegio della prima
persona) conosciamo anche Marilena, reclusa in casa dalla figlia
Elisabetta, che da piccola ha
ricevuto poco affetto e che probabilmente per questo ha sviluppato un
atteggiamento feroce nei confronti della madre; spinta da quella che
sembra proprio essere una malattia paranoica ha rinchiuso l’anziana
donna in casa impedendole qualsiasi contatto col mondo esterno,
costringendola a condividere quella prigione con l’ex
marito ora malato e reso inerme da Alzheimer e farmaci ma un tempo
violento picchiatore, tentando
così una posticcia ed insana riconciliazione familiare.
Di tutte le donne protagoniste del romanzo, quindi, ci viene
raccontato subito un frammento del presente ed un pezzo più
consistente del passato, a suggerire che i due livelli temporali
siano tutt’altro che separati ed ordinati lungo una linea
cronologica rigorosamente consecutiva, ma che anzi convivano e si
intreccino in continuazione. Sono le passioni e non il tempo a
determinare le vite di questi personaggi. Il
passato è una trappola e l’unico modo per fuggire a quel buco nero
che minaccia di inghiottirci è chiudere la sua botola oscura,
lasciandosela alle spalle. Più facile a dirsi che a farsi.
Fiore ora sta con Marco, un uomo sposato. È amore? Diciamo che
per ora scopano. Il verbo volgare non è gratuito: le riflessioni
della protagonista sono infatti movimenti ondivaghi tra la malinconia
e la carnalità, mai celata, piuttosto avvolta da una prosa lieve che
preclude esiti triviali. Una
scrittura delicata, quella di Falconi, che accarezza i traumi, i
rancori, le piccole delusioni della vita modesta, ma non per questo
meno toccante, delle sue protagoniste.
Non potendo esser amica di Marco su facebook a causa dei controlli
serrati della moglie di lui, Fiore crea un profilo falso spacciandosi
per François (il suo antico
amore francese) in modo da non generare sospetti: la loro relazione
può così svilupparsi anche telematicamente, sotto falsa identità.
Abbiamo modo di partecipare
anche al punto di vista di Luisa, la moglie di Marco, consapevole che
l’amore della vita di suo marito non è lei ma la sua ex Rirì;
Luisa è una donna agiata, ha avuto e ha degli amanti e si divide tra
l’accettazione del rapporto a metà con Marco e l’istinto di non
volersi vedere scalzata dalla prima che passa; per questo a volte
controlla l’attività del consorte sul social network, entrandoci
direttamente con l’account del marito. Sembra che per tutti non sia
possibile penetrare sotto l’apparente placido scorrere
dell’esistenza mantenendo la propria identità: per raggiungere
verità più profonde occorre crearsene una nuova, fittizia; per
ottenere rapporti più diretti non si può essere quello che si è,
ma bisogna fingersi altri. Ma è davvero auspicabile conoscere tutto?
Quando Fiore, attraverso il profilo fake di François, può osservare
liberamente ciò che pubblica l’amante, ottiene l’effetto
contrario a quello voluto: tutte le foto con la moglie che Marco ha
condiviso lo allontanano da lei, forzare il valico di quell’intimità
non è servito ad avvicinarli, anzi. L’identità si rivela così
come un qualcosa costruito necessariamente sull’omissione: sapere
tutto degli altri è una rivelazione devastante, che fa deflagrare
l’immagine che ne abbiamo. Senza toni apocalittici, con questa
storia Falconi dimostra l’ambigua oscenità dei social network, in
cui l’obiettivo di collegarsi agli altri è perseguito con l’ansia
di esporre ogni particolare di se stessi: ciò asseconda la
tentazione insita in ogni relazione umana di conoscere ogni aspetto,
anche il più recondito, dell’altro per assimilarlo totalmente a
sé, in una sorta di Panopticon sentimentale, che però si rivela un
desiderio fatale e controproducente, prima che impossibile. Di fronte
all’opportunità sfacciata di confrontarci con l’alterità per
raggiungere gradi ancora inesplorati nei rapporti con gli altri,
rimane un dubbio: forse non saremo mai pronti ad accettare
completamente il
diverso da noi; forse uno scarto tra l’immagine che abbiamo degli
altri e ciò che sono non solo è inevitabile, ma addirittura
indispensabile per la convivenza.
Tra marito, moglie e amante
si sviluppa così un rapporto malato: l’erotismo che si instaura
tra Fiore, Marco e Luisa è torbido, perché frutto della solitudine,
un succedaneo che riempie il vuoto cosmico che li divora, sublimando
l’angoscia in uno sfogo ottuso. Quello che potrebbe essere un gioco
a tre in realtà manca completamente della componente gioiosa
dell’attività ludica e diventa più simile ad una droga stordente,
cosa di cui Fiore è tra l’altro totalmente consapevole.
Il sesso, che brucia di “una
rovente sensazione di ineluttabilità”, è qui una delle varianti
del fatalismo da cui tutti si lasciando governare: ciò è evidente
soprattutto per Luisa, che più o meno consapevolmente si è fatta
trascinare nel matrimonio con un uomo che non l’amerà mai pur di
sottrarsi, attraverso un futuro grigio ma preconfezionato, alle
spaventose possibilità che la libertà ci concede.
La degradazione rischia
sempre di finire in un vortice autodistruttivo, ma forse Fiore è
ancora in tempo per decidere di salvarsi; non sarà però la sua
volontà ad esser decisiva nella conquista del lieto fine più grande
che la realtà le possa concedere: non un “vissero felici e
contenti” da fiaba (anche se la risoluzione positiva della trama e
la repentinità con cui avviene stona col resto del libro ed un po’
delude), ma quasi. Il destino stavolta ha dato una mano agli uomini.
Nicola Campostori
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