Ritratto di famiglia con bambina grassa
di Margherita Giacobino
Mondadori, 2015
pp. 256
€ 17
«Quando ho cominciato a scrivere dei miei, a cominciare da Ninin, ho obbedito a un bisogno che mi guida ormai da molto tempo: quello di cercare, senza mai trovare del tutto, il nocciolo oscuro degli esseri amati. Ricreare la loro presenza, evocarli. Queste pagine equivalgono, forse, alle immagini degli antenati a cui certi popoli detti primitivi dedicano uno spazio apposito della casa, un altare o addirittura una stanza. Si dice che offrire cibo ai morti serva a placarli, perché non tornino a disturbare i vivi. Ma a me piacerebbe che tornassero, non sarebbe affatto un disturbo; e scrivendo ho cercato di persuaderli a venirmi a trovare.»
È un banchetto imbandito, il romanzo
che ci propone Margherita Giacobino.
Il titolo ci parla di famiglia e di
bambine grasse. Ma chi si aspettasse una versione aggiornata e al
femminile di Cuore di ciccia resterebbe, per rimanere in tema,
a bocca asciutta.
Le uniche pietanze presenti sono
infatti, una che tira l'altra, come le ciliege, le storie della
famiglia -matriarcale- dell'autrice non più bambina e finalmente
sazia.
«Nasco femmina in una famiglia di donne e rappresento il futuro e la continuità col passato.»
Pur poggiando sul solido tavolone dello
scorrere lineare del tempo, dalle origini della bisnonna all'oggi
della nipote, le storie sono tutte compresenti e l'autrice le
pilucca, lascia che scorrano insieme e parallele, che si richiamino
da pagina a pagina, stuzzicando l'appetito del lettore.
Le protagoniste sono perlopiù donne,
qualche madre naturale e molte madri per vocazione, donne semplici,
spigolose, feroci e coraggiose, un po' streghe, come quelle su cui
l'autrice negli anni Settanta insisterà nel fare la tesi contro il
parere dei professori.
A partire dalla magna Ninin,
l'origine e l'archetipo,
sorella della nonna che sarà per la scrittrice «la
mia Lucy, la prima forma umana che emerge dalla preistoria»,
punto fermo nella narrazione, fino ad arrivare all'amatissima madre
Maria Grazia e al suo matrimonio infelice con lo sfuggente Angelo,
eterno bambino.
Il
tutto filtrato dalla consapevolezza lucida dell'importanza di far
pace coi propri fantasmi e lasciare che il nostro passato costruisca
il futuro, ma soprattutto dalla coscienza e dalla forte personalità
(emergente talvolta per similitudine, spesso per contrasto) di colei
che ha collezionato questi frammenti con pazienza d'archeologa.
La
saga familiare di Margherita Giacobino è dunque la storia di una di
quelle famiglie «infelici ciascuna a modo suo» à la Tolstoj.
Parte
dalle campagne del Canavese di fine Ottocento, una casa colonica in
cui si vive tutti insieme, giovani vecchi e bambini assoggettati alle
leggi della tradizione; viene traghettata nella modernità della vita
cittadina dalle due guerre mondiali, dall'orizzonte dei campi a
quello della fabbrica; è testimone del boom economico e poi della
crisi dei giorni nostri, con un unico grande leitmotiv,
il dialetto come modo d'espressione viscerale, come lingua madre.
Tanto
da diventare un lessico
famigliare, un
bagaglio di espressioni intraducibili che intessono la trama della
narrazione aumentandone l' intensità.
È
un romanzo da approcciarsi con lo stomaco vuoto e lasciarsi ingozzare
dalle storie, bocconi generosi che ci daranno alla fine un ritratto
d'insieme ma ci lasceranno comunque affamati, desiderosi di saperne
ancora, di sapere di più.
O
di sentirla raccontare di nuovo, daccapo, ancora un'altra volta,
proprio come le storie della nonna.
Giulia Marziali
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