in

Scrittori in ascolto | Con Antonio Moresco a Milano

- -
Antonio Moresco all'Open di Milano - Foto di ©GloriaMGhioni

Quando mi è stato proposto da Mondadori di incontrare Antonio Moresco, il mio sì è nato spontaneo. Certo, l'uscita del tanto atteso Gli increati (leggi la recensione) era un'occasione ghiotta e l'unico rammarico era quello di non avere abbastanza tempo per leggere i volumi precedenti (Gli esordi e i Canti del caos). Tuttavia, le oltre mille pagine del nuovo romanzo hanno suscitato abbastanza domande per una piacevolissima chiacchierata alla Libreria Open martedì 26. C'era un po' di timore a rompere il ghiaccio: siamo in molti a ritenere che Antonio Moresco sia tra le più alte voci letterarie del nostro Duemila, e quindi non è semplice porre domande a chi presto entrerà (ma sta già entrando) nel canone della nostra letteratura contemporanea.  

Infrango io il silenzio con una domanda abbastanza coraggiosa: visto che nel suo libro ci sono più domande che risposte, almeno nella prima metà, ritiene che la letteratura debba fornire più quesiti che risposte pronte? 
Moresco conferma che «le domande aprono il mondo, le risposte lo chiudono», e aggiunge:
 «D'altra parte, quando scrivo non ho fari davanti a me, ma percorro una strada nel buio. Anche il lettore deve fare lo stesso. Il lettore non è un recipiente vuoto da riempire, ma compie un'avventura insieme allo scrittore. La letteratura porta a una nuova zona di scoperta e le domande fungono da traino».
Inevitabile, pensando al romanzo, soffermarsi sul cortocircuito spazio-temporale di cui parlavo anche nella recensione. È una dimensione che la scrittura permette di vivere, perché quando si crea si è in una zona fluida, in cui Moresco si sente «più precognitivo, più ardito». Nella vita, invece, la concezione lineare del tempo è più rassicurante. Ne Gli Increati, Moresco ha provato letteralmente a terremotare questo schema chiuso in un «viaggio che spalanca i possibili con un'ipotesi aliena rispetto al nostro modo di ragionare ogni giorno». E Moresco si augura che le ipotesi da lui formulate nel libro travalichino i confini della letteratura, per interessare anche la scienza e la filosofia:
«Spero che quello che dico nel libro venga preso sul serio, non come un paradosso. Abbiamo bisogno di muoverci verso un'altra direzione, tutto ce lo sta dicendo: la crisi economica, ma anche come trattiamo il nostro pianeta. Dobbiamo muoverci da questa stasi, siamo paralizzati dalla paura della morte.»
Il romanzo, infatti, propone un'alternativa alla consueta dicotomia tra creazione/distruzione: l'increazione. Con questa ipotesi, l'immortalità perde di attrattiva (perché prolungare un'eterna vecchiaia?); molto meglio imparare a non temere la morte: questa è la maggiore libertà.

Quando passiamo a parlare di editoria con Moresco, ecco che emerge tutta l'essenza dello scrittore, che ama essere letto, sì, ma che non ha mai voluto "infinocchiare" il lettore costruendo opere ad hoc. Anzi, ha sempre desiderato dare il meglio al lettore, anche se il meglio è lungo 1000 pagine complesse: «Come non c'è nello scrittore solo ciò che lui pensa di essere, così anche il lettore ha bisogno di volare alto per conoscere parti più profonde di sé. E un libro può fare anche questo.» D'altra parte, come ama ricordare, non ha scritto solo libri così impegnativi, ma anche opere diverse, come La lucina e Fiaba d'amore, "effusioni veloci", composte in poche settimane.

Perché, appunto, la scrittura risponde a un bisogno profondissimo, messo a tacere a diciannove/vent'anni per paura di rivelare sulla pagina le proprie fragilità. Il silenzio però è durato poco: a trent'anni, fatti traumatici ed esperienze dure hanno portato Moresco a ricominciare. Tuttavia, l'autore ha dovuto attendere i quarantacinque anni per trovare un editore coraggioso (Bollati) che credesse in lui: e quei quindici anni di attesa hanno fatto provare la «sensazione di restare sepolto sotto le macerie e di gridare, senza che nessuno riuscisse a sentire.»
Poi il successo è arrivato, ma Moresco confessa di restare sempre stupito davanti al «grande mistero» dell'editoria e al fatto di avere dei lettori: «è un dono grandissimo», commenta con una sincerità e un'umiltà che non cozzano affatto con la consapevolezza del proprio essere scrittore.

Quanto allo stile, Moresco confessa di non rendersi molto conto di essere così riconoscibile. Tuttavia, quando gli chiedo se c'è una filiazione o un contatto con il poema dantesco, Moresco ammette di aver dialogato a lungo con la Commedia, ma ancor più con il Dante della Vita Nova, opera forse ancor più rivoluzionaria. E proprio dalla Vita Nova confessa di aver preso la figura della Pesca. Anzi, da un certo punto di vista, Gli increati può essere considerato «uno sterminato romanzo d'amore».

E il Moresco-lettore è sempre in grado di stupirsi e, d'altra parte, «leggere è decisamente meglio di scrivere: lì qualcuno ha già fatto la fatica per me!», sorride. In questi giorni sta leggendo Kipling e si meraviglia di quanto sia bella la sua opera. In genere, ama molto la poesia: su tutti, l'Iliade, molto più dell'Odissea, perché lì manca la linearità del tempo e nella guerra rintraccia lo scontro del quotidiano. Accanto a Omero, Leopardi, Rimbaud e Dickinson. Tra i narratori, Melville, i russi e Cervantes e, più vicino a noi, Kafka. I nomi si avvicendano, in realtà, perché Moresco non è solo un piacevolissimo interlocutore, ma anche un generosissimo scrittore, che non si risparmia nel raccontarsi, ma in modo pudico e semplice, tenendo sempre ben presente un mantra:
«Quando leggo letteratura, il tempo non esiste.»
Lo stesso è valso per noi, seduti per un'ora e mezza al tavolo con Moresco, incantati dalle parole e da chi le sa incastonare così. 

GMGhioni