di Livia Manera Sambuy
Feltrinelli, 2015
pp. 208
€ 16,00
Ricordate il vecchio dettame accademico e giornalistico del tenersi assolutamente fuori, oggettivi e algidi (almeno in apparenza) a quello che si scrive? Sempre più testi negli ultimi anni mi fanno pensare che in realtà evitare la prima persona sia solo un celarsi dietro a una cortina che si sta facendo sempre più trasparente e quasi scialba, come se la seta del nostro nascondiglio - che ci rivela in controluce, ma sfumati - non fosse altro che un acrilico traslucido e fasullo.
Bene, questo per dire che l'operazione tentata da Livia Manera Sambuy, ovvero quella di «sedersi davanti a un computer e scrivere di letteratura anglo-americana e dei suoi autori senza sapere dove la avrebbe portata la testa, e in ogni caso fuori dai modelli del giornalismo o della critica letteraria» non deve sconvolgerci. Al contrario, l'intreccio dei generi permette all'autrice di moltiplicare le prospettive d'analisi: l'approccio giornalistico garantisce la veridicità delle parole degli scrittori intervistati dagli anni '90; al contempo, l'autobiografia aggiunge agli incontri un calore autentico, che tradisce le emozioni e le ansie della Livia-intervistatrice, le responsabilità della Livia-giornalista e soprattutto le tante curiosità della Livia-lettrice.
Sempre con grande introspezione e con una franca rilettura del passato (come solo le memorie consentono di fare), Livia Manera Sambuy ripercorre il suo incontro parigino con Mavis Gallant, scrittrice e giornalista canadese, ormai anziana, ma con un integro senso dell'umorismo, a tratti amaro, spesso geniale:
“Ancora non so che cosa spinga qualcuno sano di mente a lasciare la terraferma e a passare la vita a descrivere persone che non esistono".
Se lì si traccia la parabola della scrittrice che ha attraversato la vita con coraggio, nel capitolo dedicato a Judith Thurman si parla del legame tra autrice e biografie (memorabili quelle su Karen Blixen e su Colette). È proprio inevitabile che la biografia parta da una spassionata ammirazione? Preparatevi: la risposta è tutt'altro che scontata:
O ancora:"Karen Blixen soffriva di una certa grandiosità. [...] E io volevo capire la sua grandiosità per decifrare la mia".
“Quando scrivi una biografia, è come se dovessi farti strada attraverso un blocco scistoso di repressione, per trovare una sorta di libertà sensuale che in verità non ha nulla di libero, perché ci arrivi solo sudando sangue. Ma bisogna che sulla carta quel processo sembri libero. Perché è questa libertà sensuale che dà piacere al lettore e che costituisce la buona scrittura. Solo che una parte di te fa di tutto per ostacolare questo percorso, combatte perché tu non dica delle cose, perché non scavi, perché non ti lasci sorprendere dalle cose terribili di te stessa che potresti scoprire lungo la via. Insomma, è una lotta contro le furie, contro il terrore di rivelare i lati più oscuri di te, che il tuo soggetto porta con sé. Per questo non vorrei mai che qualcuno scrivesse la mia biografia,” era scoppiata a ridere, “magari solo per scoprire che sono andata a letto con trenta uomini, venti dei quali non so nemmeno più come si chiamano!”.
D'altra parte, tutto Non scrivere di me offre letture e riletture particolari, che mettono in crisi la nostra idea di uno scrittore e più spesso rivelano genialità, paranoie, nevrosi, ma anche epifanie e intuizioni irripetibili. Quasi a ogni pagina viene da dirsi: ecco perché lui/lei è uno Scrittore, con una maiuscola di ammirazione (e non di proterva idolatria).
Impossibile non trascrivere frasi da portare sempre con sé... |
L'apoteosi di questo crogiuolo di vizi e pregi è il capitolo su David Foster Wallace, che Livia ha incontrato a due ore di strada da Chicago, in un McDonald's scelto dall'autore. E in quelle poche pagine si concentrano le ansie di Wallace per la traduzione delle sue opere, ma anche la diffidenza verso interviste, recensioni e giornalismo in generale («“Non è il suo caso, ma lei sa meglio di me che un giornalista, senza dire una sola parola falsa, può falsare tutto quello che dici e rovinarti”»). Ci sono i rovelli del genio incompreso, che non fa nulla per semplificare il compito a Livia. Ma ci sono anche gli improvvisi slanci a donarsi, i colpi di scena («“La critica non è scienza: non mi aspetto che i critici separino le loro emozioni da quello he recensiscono”»), i ricordi:
“Don DeLillo una volta mi ha detto che scrivere, per lui, è un modo di visitare parti non turisticizzate di sé stesso - come spiagge ancora intatte, credo volesse dire. Mi è sempre piaciuta quella frase, e la condivido”.
Accanto ai grandi che tutti ricordiamo, in Non scrivere di me fanno capolino nomi di autori ingiustamente dimenticati: Joseph Mitchell, ad esempio, che nel 1993 ai tempi dell'intervista è ormai un anziano e superstizioso autore, che dopo trent'anni di silenzio torna nella letteratura con un bestseller americano molto ambizioso, Up in the Old Hotel, di ben oltre settecento pagine. Allo stesso modo, anche James Purdy, che ha sconvolto una certa America con Malcom nel 1959 per la crudezza con cui male e purezza andavano a braccetto:
"Non mi piacciono le idee. Non credo nelle idee. C’è una frase che mi piace, non so chi l’abbia scritta, forse l’ho scritta io in un sogno: tu non sai che cosa sai. È questa la differenza tra quello che scrivo io e quello che scrivono gli scrittori di successo. Loro scrivono quello che sanno, e naturalmente non è vero, è una menzogna. Io invece scrivo quello che non so e dico sempre la verità.”
Che Livia Manera Sambuy sia attratta dagli scrittori di forte personalità e con una vita intensamente caratteristica è certo, e Paula Fox ne è la prova, con tutta la sua "non assimilazione" di "segmenti sociali e geografici", ma soprattutto con la sua sperimentazione inesausta.
E poi ci sono due "casi" interessantissimi, che pongono una questione da sempre irrisolta: cosa fare e come parlare di chi non è solo uno scrittore celebre a livello mondiale, ma anche un amico? Livia se lo chiede per Richard Ford, di cui si apprezza la virile vitalità e la franchezza con cui si racconta, nonché la divertente e quasi commovente amicizia con Carver e la struggente frase in chiusura:
"Ero più felice quando ero meno bravo."
Ma soprattutto la domanda risorge e impera con Philip Roth, che Livia ha conosciuto nel 2000 e non proprio in modo convenzionale (non vi voglio togliere la sorpresa). Eppure il rapporto poi cambia, la nostra autrice s'innamora della «tirannia della sua intensità» (per citare lo stesso Roth), ma anche quel suo essere «al cento per cento nel presente e al cento per cento con te» (come invece scrive Livia). L'amicizia si fa sempre più autentica e Livia ammette di sapere sempre molto più di quanto sia necessario e di quanto sia bene mettere in un articolo giornalistico. E dunque? Cosa fare?
A fronte di questa rapida (ma vi assicuro molto riduttiva) carrellata di incontri che ho qui riassunto forzatamente, viene proprio da chiedersi se Livia Manera Sambuy non stia fondando un nuovo modo di fare meta-letteratura, ovvero un genere ibrido ed estremamente plastico e poroso, che permetta di deformare lo stile d'intervista in base all'autore che si incontra, ma anche - e non è poco - all'intervistatore e alla sua non più prescindibile soggettività.
GMGhioni
La citazione (e Leitmotiv) da ripensare:
Il fatto è, come ho detto, che sospetto che le storie, vere o inventate, aiutino a vivere. [...] O forse dovrei dire che aiutano a vivere me.
Un punto su cui riflettere:
L’esperienza mi ha convinta che la chiave di quel mistero, che ho cercato di sciogliere con diversi romanzieri, è di solito un’infanzia e un’adolescenza di relativo isolamento, una forte curiosità per i libri, la lettura come rifugio e consolazione. Eppure esiste un’altra motivazione più determinante e di cui normalmente non si parla se non nell’ambito della psicanalisi: ed è un accesso privilegiato al mondo della propria infanzia.
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