in

#CritiCinema - Il racconto dei racconti di Garrone e l'oscura fantasia del "made in Italy"

- -
Le fiabe non sono per bambini. 
Le fiabe sono posti pericolosi, grotteschi, irreali. Più della Napoli della camorra (Gomorra, 2008) e di quella della povera gente che sogna il riscatto del Grande Fratello (Reality, 2012), sembra suggerirci il regista Matteo Garrone. 
Che nel suo Racconto dei racconti in concorso a Cannes 2015, distilla dall'opera secentesca di Giambattista Basile Lo cunto de li cunti (1643-46) un'essenza di instabilità, come fosse una lunga camminata funambolica su un filo sospeso nel vuoto.
È un film in bilico, dove il fantastico ha la parvenza della realtà ma lo spirito dei sogni (talvolta, degli incubi).
 
Quello che muove ciascun personaggio, come in una fiaba che si rispetti, è la quête, desiderio e ricerca: che sia di una maternità regale, o dell'amico-fratello da cui si è stati separati, o per la perduta giovinezza e il cuore di un principe, o del necessario coraggio di diventare grandi e di uccidere l'orco. 
E anche la macchina da presa sembra vagare nei racconti (tre episodi liberamente tratti dalla raccolta di Basile: La regina, La pulce e Le due vecchie) che si intersecano alla ricerca di uno sguardo che sfugge, di un'oggettivazione di una materia impalpabile e incantata.

È una sensazione di disorientamento, il cui emblema potrebbe essere la sequenza in cui la macchina da presa pedina la regina (Salma Hayek) che vaga nel labirinto inseguendo suo figlio Elias (Christian Lees), allegra ma allo stesso tempo in affanno, come se temesse un avverarsi di quel gioco di sparizioni. 
E l'impressione che viene data allo spettatore è proprio quella di girare in un labirinto, fra l'emozione gioiosa della scoperta e la paura dell'ignoto alla svolta dell'angolo, in una realtà bidimensionale e barocca.
Perché è vero, l'orizzonte è quello della fiaba, ma il trattamento che Garrone ne fa è così (paradossalmente) realistico da creare una sensazione oscillante fra un nuovo tipo di stupore e la perdita di coordinate per decifrare ciò che si sta vedendo. 
Se nelle fiabe, dunque, la storia per quanto fantastica ha una sua coerenza che la rende credibile, qui lo scacco è dietro l'angolo. Sorprende, e disorienta. E fa di questo film qualcosa di potente ma vagamente oscuro, di cui non si riesce a decifrare il confine fra il gusto del racconto e una sorta di incomprensibile allegoria. 

Altro dato interessante è il netto allontanamento di Garrone dal regionalismo che l'aveva contraddistinto nei film precedenti. L'originale dialetto napoletano di Basile si tramuta in una lingua apparentemente asettica e fredda, e nel passaggio da cunto a racconto l'ambientazione si smarca dai vivaci confini partenopei (e italiani) e si sospende in un'atmosfera senza tempo e senza luogo.
O meglio, i luoghi ci sono e sono italiani ma trasfigurati: il regista che è diventato famoso per lo sguardo impietoso sulla realtà italiana stavolta mostra a Cannes (dove aveva vinto con Gomorra nel 2008 il Grand Prix della giuria) un'Italia che sa fare da sfondo e da molla all'oscura fantasia del “made in Italy”. 

Giulia Marziali