21 volte Shindand
di Bruno Vio
Kimerik Edizioni, 2014
pp. 146
euro 12,80
Tanti hanno provato a raccontare l’Afghanistan, qualcuno ne ha trattato gli eventi legati alla missione Isaf, quindi prediligendo un punto di vista militare, altri ne hanno messo in evidenza il valore strategico, all’interno della Guerra Fredda, e successivamente nel post 11 Settembre. Nessuno finora ne aveva raccolto la voce a partire dagli abitanti di un piccolo distretto all’interno di una delle 32 province che formano il Paese. “21 Volte Shindand”, scritto dall'esordiente Bruno Vio ed edito da Kimerik Edizioni nasce dall’ultima esperienza che l’autore, capitano dell’esercito e giornalista, ha fatto in Afghanistan, tra il 2012 e il 2013, e della quale ha voluto raccontare uno degli aspetti, a volte meno esaminati di quel contesto, ovvero il mosaico di vite semplici e difficili, degli abitanti di un villaggio, Shindand, sito nel distretto occidentale di Herat.
L’autore presenterà lunedì alle 18 il libro nella prestigiosa cornice del Circolo dei Lettori, a Torino. Lo abbiamo incontrato per intervistarlo e per farci raccontare il libro.
1 - Come è nata l’idea di questo libro?
“Il desiderio di parlare di Afghanistan, del mio Afghanistan quello che ho più volte incontrato, è una volontà che è cresciuta nel tempo. L’idea di scrivere un libro si è concretizzata un po’ per volta, leggendo, studiando e cercando di comprendere meglio quella che era la terra che mi ospitava per periodi piuttosto lunghi. Tuttavia, quello che trovavo, mi lasciava ancora troppi interrogativi. Vi è tantissima letteratura che si concentra sugli eventi, sui fatti storici e sulla geopolitica. Dall’altro lato, vi è una crescente letteratura romanzesca su storie che se pur ambientate, dipingono personaggi e storie che non riuscivo a sentire pienamente vere, quando andavo per i villaggi e parlavo con le persone. Da qui l’idea di cambiare rotta, riempire quello che per me era un vuoto. Ho preferito concentrarmi sulle persone e la loro umanità, a volte semplice a volte più complessa, ma che potesse descrivere un’umanità spesso dimenticata che vive quei luoghi tutti i giorni”.
2 - La particolarità sta nel taglio che ha dato a questo libro ma anche nel fatto che lei si trovava in Afghanistan come militare della missione Isaf, e non era la sua prima volta. Perché ha deciso di raccontare il vissuto della gente comune?
“Un po’ il caso e un po’ l’opportunità di essere stato a contatto con queste persone per sette mesi, hanno fatto crescere in me l’idea che questa era l’occasione migliore per provare a descrivere un luogo. Non ho certamente la pretesa di descrivere un’intero Paese. Per questo ho preferito concentrarmi sul distretto di Shindand, un luogo piccolo, ma ricco di realtà uniche, varie, che potevano certamente costruire quel quadro che volevo dipingere. Una spinta importante è anche giunta dal rapporto profondo che si era creato nel tempo con alcuni dei personaggi di cui parlo, arrivando a poter considerare con alcuni di loro di aver instaurato una vera amicizia. Volevo che questa amicizia, questo vivere e condividere, non finisse con il mio rientro in Italia. Sentivo di dover loro qualcosa, fosse solo, appunto, raccontare le loro vite che se pur, semplici, in quel contesto, assumono ai nostri occhi un carattere straordinario, dettato proprio da quella capacità di interpretare la vita ed i suoi eventi in modi e con risposte che non sempre comprendiamo”.
3 - Come ha raccolto le interviste?
“Come disse Proust, “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è”. È questo lo spirito con cui ho da subito approcciato quei luoghi e chi ci abitava. Per questo, le interviste, le informazioni più spicciole sulle vite dei personaggi che ho raccontato sono giunte al termine di un processo che prima di tutto mi ha portato a cercare di slegarmi da stereotipi e luoghi comuni dettati dalla mia cultura. Come ho detto, l’idea si è sviluppata progressivamente. Allo stesso modo ho compreso con il passare del tempo che le sensazione, gli aneddoti e le storie che vivevamo insieme e mi raccontavano, stavano disegnando dei personaggi unici. Le interviste sono state raccolte negli ultimi mesi, come completamente di un percorso che mi ha prima consentito di sentire più vicina quell’umanità per poi descriverne i tratti nel modo più neutro possibile, lontano da figure romanzate e in qualche modo artefatte da un adeguamento di queste figure a canoni letterari più vicini ai nostri”.
4 - Cosa vuole comunicare con queste 21 “biografie”, questi profili di gente comune che sono uno spaccato dell’Afghanistan occidentale meno conosciuto?
“21 volte Shindand vuole rappresentare un nuovo modo di conoscere l’Afghanistan, o almeno una piccola parte di esso. Sono due gli elementi che mi hanno portato a scrivere il libro. Da una parte vuole essere una fotografia, di vite, di uomini e donne che in quei luoghi sono nati e hanno vissuto. Proprio come una fotografia, vuole essere scevra da commenti e valutazioni personali che possano in qualche modo aiutare il lettore. Lo stile a volte così asciutto è stata una scelta ragionata. Volevo che nel leggere queste pagine il lettore potesse costruirsi una propria idea di quelle persone. Volevo che passasse un messaggio molto semplice. Queste persone ci sono e ci sono state, anche quando di Afghanistan si parlava poco. Loro c’erano e vivevano vite semplici come quelle che continuano a vivere oggi, consci che la loro vita è scandita dal tempo che passa e non viene battuta a suon di eventi ed episodi, che se pur unici, di rilevanza mondiale, lasciano indifferenti gli uomini e le donne di Shindand. Dall’altra parte, più semplicemente, volevo dare voce a chi spesso voce non ha proprio perché gli eventi, le grandi azioni e gli avvenimenti più importanti spostano l’attenzione da chi di quegli eventi è protagonista”.
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