Abbiamo avuto già modo di parlare di La dittatura dell'inverno (Mondadori, 2015), primo romanzo della giornalista sportiva Valeria Ancione (leggi qui la recensione di Mattia Nesto). Ho incontrato Valeria in un soleggiato pomeriggio pisano per farle qualche domanda sul suo libro, un romanzo di amori, fughe e riscoperte che mette in discussione molti pregiudizi.
La dittatura dell’inverno è il tuo
esordio narrativo, ma hai alle spalle una lunga esperienza di scrittura giornalistica. Cosa
cambia quando si passa a un altro genere di scrittura?
Non cambia nulla, nel senso che la mia scrittura è rimasta
la stessa. Forse, al contrario, adesso è diventato più difficile scrivere le “venti
righe”, la scrittura veloce del giornale.
Perché
La dittatura dell’inverno
non è certo un romanzo di corto respiro. A questo proposito, com’è nata l’idea
di raccontare questa storia?
La dittatura dell’inverno
nasce in una “freddissima” giornata d’inverno – c’erano diciassette gradi! –
in cui questo mio amico psicologo smaniava contro il tempo. E a un certo punto
ha esclamato: «L’inverno è una dittatura». E io l’ho guardato e ho pensato:
questo è il titolo che vorrei dare al romanzo. La dittatura dell'inverno è un libro nato tutto
al contrario: è nato prima il titolo. Il mio amico mi ha massacrato perché cominciassi a
scrivere il romanzo, e quella che ho scritto per prima è la parte che poi è
diventata quella finale.
Il resto è venuto tutto da sé: avevo voglia di raccontare la
storia di una donna che, arrivata ai quarant’anni, esce dalla maternità – gli
ultimi due figli, due gemelli, hanno sei anni e vanno in prima elementare – e
rivede un po’ la luce. Una luce molto riflessa su di sé, e che passa attraverso
il corpo. Noi donne facciamo passare tutto attraverso il corpo, nel bene e nel
male. Quella di Nina è un po’ una rinascita: lei prende coscienza di “essere”,
oltre i ruoli che le vengono affibbiati (madre, moglie, lavoratrice), anche
altro. Ma… non fa bilanci. Mi dà fastidio parlare di “bilanci”.
Nina, peraltro, è un personaggio dalla vita molto strutturata. Madre di cinque figli, ha un lavoro che la soddisfa, fa sport e ha una vita molto piena. Non è certo un’annoiatissima Madame Bovary.
Il suo cambiamento è un processo che considero naturale in
una donna, e anche in una donna così “piena”. Qualche volta ho sentito dire che
le azioni di Nina sono dettate dalla noia: è annoiata, è stufa, per questo
agisce così. Ma come fa ad essere stufa
una donna dalla vita così ricca, con figli, un lavoro che ama, anche una bella
relazione col proprio marito… Stufa proprio non è, è anzi piena di cose – e
probabilmente quello che le succede è imprevisto e imprevedibile, ma riaccende
qualcosa in lei. Nina a un certo punto dice: «Eva era uno specchio benevolo in
cui guardarmi». Ecco. A un certo punto lei passa davanti allo specchio.
Capita un po’
con tutti i personaggi che raccontano in prima persona che si tenda a un distacco
o un’identificazione totale da parte dei lettori. Nina è stata un po’ criticata, come accennavi.
Perché credi che sia successo?
La critica alla donna “annoiata” – e ripeto, ce ne vuole per
annoiarsi! – è tipicamente maschile. Mai
femminile. I lettori che mi scrivono, anche gli uomini, si identificano di più
in Nina che negli altri personaggi. Quello che forse dà un po’ fastidio è la “perfezione”
di questa donna che fa mille cose, ha un uomo che la ama… e vuole altro. Ma non
necessariamente le vite piene – di tutto, di tanto, di bello – non hanno un
vuoto che ha bisogno di essere colmato.
Probabilmente è
proprio il fatto che la sua vita sia così piena che dà ad Eva un fascino così
magnetico: Eva per Nina è una fuga dal mondo…
Eva è quello che Nina era. Nina non ha rimpianti o
nostalgie, o il desiderio di tornare bambina. Vivere attraverso Eva è per Nina
una ventata d’ossigeno e di leggerezza. Quando si diventa madri la leggerezza,
purtroppo, si allontana. Proprio da questo nasce anche l’idea di una “dittatura
dell’inverno”. La primavera, l’estate è la democrazia: mi metto una maglietta
ed esco. Eva non chiede permesso a nessuno prima di uscire, è leggera come la
primavera.
Un elemento che
spesso fa capolino nel rapporto tra le due è come un istinto di maternità di
Nina nei confronti di Eva. Quasi il desiderio di proteggere e curare una parte
di sé che ormai è passata e che nessuno vede più.
Inizialmente non avevo nemmeno previsto un vero e
proprio amore tra Nina ed Eva. Avevo pensato al loro rapporto come a qualcosa
di essenzialmente fisico, attraverso il corpo, e queste esperienze – sia con
Eva, che con i due uomini ai quali Nina si lega – dovevano essere una via attraverso
cui raggiungere una vera consapevolezza di sé.
E l’amore è nato come
un innesto, dunque, su questo progetto iniziale?
È andata proprio così: si sono innamorate e io le ho
lasciate fare. La donna è sempre in cambiamento. Non vuol dire che sia in
ricerca di qualcosa. Nina non cerca qualcosa: è qualcosa che, invece, trova
lei. A Nina è capitata Eva; a me la mia scrittura. Mi sono concessa questa
libertà piena di sotterfugi, risvegli all’alba per scrivere senza dar fastidio
alla famiglia. Ma è questo che mi ha emozionato nei due anni che ho impiegato a
scrivere La dittatura dell’inverno.
Anche questa in fondo è stata una fuga. Tutte le donne, secondo me, sono sempre
in fuga, in qualche modo.
E al contempo però
questa donna in fuga è cercata da tutti. Nina, come scrivi a un certo punto, si
sente (e diventa) una «calamita del desiderio»: è desiderata da Eva, dal
direttore, dal professore, è cercata da suo marito…
Se a un certo punto una donna diventa libera manda un forte
messaggio. Ecco perché non è soltanto un solo individuo a desiderarla. Ce n’è
uno che s’innamora, un altro ha un’attrazione essenzialmente fisica… e chissà
quanti altri ne ho persi per strada che avrei voluto raccontare: perché c’è un
momento in cui la donna consapevole delle cose che fa bene (faccio bene la
madre, la libraia…) manifesta la propria consapevolezza e diventa ricettiva
alla conquista. Come se dicesse “adesso sono viva”.
Laura Ingallinella
@lauraingalli
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