di Concita De Gregorio
Feltrinelli, 2015
pp. 128
€ 13
Lei ha figli?, ti chiedono. E taci. Sì, due. Vorresti dire. Perché è così, ne hai due. Sono lì ogni istante. Dell'assenza non ti puoi mai liberare. Della presenza sì, ti dimentichi a momenti. Se in un'altra stanza, sei concentrato su un lavoro, sei preso altrove, non ci pensi: sai che la presenza se ne va ma torna, può tornare con un gesto, è facile. Dell'assenza non ti dimentichi mai. Non ti permette distrazione, mai. Allora dici: sì, ne ho due. Poi dovresti aggiungere: però sono morte. Probabilmente morte, se proprio vuoi essere precisa. (p. 120)
Sopravvivere ai propri figli è un dolore che non conosce soste, come ha insegnato la letteratura di tutti i secoli, che tuttavia non ha neanche trovato un termine per definire questi "orfani di figli". Impone di accettare l'«assedio» di ciò che manca, o di rinunciare alla propria sanità per rifugiarsi nella dimensione illusoria del ricordo. Eppure si può anche uscirne più forti, ben sapendo che la presenza degli assenti è compagna e prova di vita. Lo ricorderete, il dramma familiare che sconvolse le cronache nel 2011: la scomparsa di due gemelline di sei anni, Alessia e Livia, dalla casa a Losanna, seguita dal suicidio del padre Matthias, lasciatosi travolgere da un treno a Foggia. Cosa sia stato delle bambine, nessuno lo sa, e la madre, Irina Lucidi, si è battuta strenuamente per trovare le piccole, anche quando la loro storia ha smesso di interessare le cronache, ed è stata archiviata come un caso irrisolto (qui i fatti e la recensione di A. Sofri). Le bambine? Date per morte. Ma non nel cuore della madre, che anzi ha avuto la forza di aprire la fondazione Missing Children Switzerland, per supporto a chi sta vivendo il suo stesso inferno.
La storia di Irina, straziante ma ancora piena di speranza e di desiderio di riscatto, è al centro di Mi sa che fuori è primavera, ultima prova narrativa di Concita De Gregorio. La sfida, qui, era duplice: da un lato non snaturare la verità di cronaca; dall'altro renderli qualcosa di nuovo, aggiungere lo scavo psicologico e la riflessione laddove la crudezza dei fatti non può spiegare cosa si prova davvero. Lì, ci arriva una penna dal tratto fine e dall'inchiostro indelebile, che non risparmia le parole del dolore ma non le ricama in arzigogoli. Anzi, si denuda di qualsiasi orpello o aggettivo estremo, per preferire l'accostamento di immagini, ricordi e giochi temporali. Proprio questo salti tra flashback, lettere, testimonianze, unito a un singolare cambiamento di focalizzazione (Irina parla e giudica sé stessa, talvolta, come se si guardasse dall'esterno) garantiscono una vivacità stilistica che è pienamente coerente al personaggio, tutt'altro che spento dagli eventi.
Infatti, non pensiate a Mi sa che fuori è primavera come a un libro patetico, o perlomeno non nell'accezione moderna e denigratoria del termine. Però il pathos c'è, si "compatisce", ovvero si avverte insieme alla protagonista la forza di un dolore mai accantonabile, con cui però si può imparare a vivere:
Il lutto in assenza del corpo è un'emorragia misteriosa e inarrestabile: hai sempre nuova linfa da perdere, si rigenera, non arriva mai il giorno in cui si estingue. (p. 86)
Ad aiutare Irina, l'incontro con Luis, un uomo di rara sensibilità, che conosce bene il dolore, lo tratta con rispetto ma anche con familiarità. E, quasi con sgomento, fin dalla prima pagina Irina dichiara di essere tornata a trovare la felicità e di aver capito cos'è davvero l'amore, partendo dal presupposto che
l'amore si moltiplica, non si divide (p. 49).
GMGhioni
@gloriaghioni
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