di Elena Ferrante
E/O, 2014
pp. 464
€ 19,50
Devo dire che è stata una bella esperienza. È chiaro che quando da lettore decidi di affrontare una quadrilogia, un pensiero recondito, ma neanche troppo, suscita apprensione: ammesso che la storia riesca subito a catturati, il livello qualitativo si manterrà alto dal primo all’ultimo libro? Visto che ho terminato questo viaggio, posso dire che mi pare riduttivo candidare Elena Ferrante per lo Strega formalmente per “Storia della bambina perduta”. Come noto, la Ferrante , fantasma della letteratura italiana, si aggira per il Ninfeo di Villa Giulia. In vista del 2 luglio parte dalla terza posizione, dopo “La ferocia” di Nicola Lagioia e “La sposa” di Mauro Covacich. Io dico: per ora.
“Storia della bambina perduta” è l’ultimo piano di un edificio epico come la letteratura italiana non conosceva dai tempi, sì… del Manzoni. O magari da certi esempi del verismo ottocentesco. E subito mi viene in mente un napoletano, non a caso, Federico De Roberto. Se preso singolarmente, è un libro monco, se collocato in un quadro organico, pensato, ne diventa il completamento. È giusto che Elena Ferrante sia allo Strega, e dove meglio crede se decide di continuare la scelta dell’anonimato, per l’intero ciclo dell’Amica Geniale.
Se da una parte i tre precedenti sono stati un crescendo, di situazioni, di rapporti, di personalità, di età anagrafiche, di personaggi, di città, di amori, questo quarto romanzo è invece una riduzione, una continua sottrazione. Anche di anni. Spariscono progressivamente tutti e non a caso il finale è quello di una donna adulta con in mano un oggetto appartenutole durante l’infanzia, quando è cominciata l’intera vicenda.
Con “Storia della bambina perduta”, la perdita si espande, si dilata. Si perde una bambina ma si perdono tantissimi grandi, per morte naturale, per morte provocata, per le più varie reazioni, per tradimenti, per rinnegamenti, ciascuno consumato nel gorgo di una vita di smarginature. Senza confini, senza identità, non rimane solo l’Italia, sfondo di un ciclo narrativo ultradecennale: così terminano i singoli destini che vivono sul pendolo oscillante fra qualcosa di irrimediabile e tentativi di ricucitura. E allora s’indugia, si esita, si è insicuri e si lascia andare. È questo rovesciamento di prospettiva, che coinvolge peraltro il ruolo della letteratura e dello scrivere, l’aspetto davvero coinvolgente del romanzo. Tuttavia puoi coglierlo meglio se hai incamerato gli altri tre.
La scrittura, dicevamo: o la rendi fedele in toto alla realtà, carta calcante del mondo, pare a un certo punto riflettere la protagonista Elena Greco, sulla scia delle sollecitazioni immancabili dell’amica Lila, o interamente immaginaria. Non ci sono vie di mezzo, come invece sembra credere Elena, per la quale è l’ambiguità a rendere veritiero e credibile più del vero ciò che si racconta. Il rischio è l’incomprensione delle reali intenzioni dello scrittore.
Se qualcosa della realtà viene in ogni caso sacrificato quando alcuni provano a descriverla, non possiamo sorprenderci che questa propensione entropica appartenga a chi la realtà la vive. Ed ecco allora le sparizioni: di certezze, di valori, di amici, perfino di nomi. A un certo punto Lila, condizionata da un fatto terribile, vuole, più che sparire, evaporare. Desidera che perfino il nome, dal suo punto di vista solo una fascetta senza spessore, non sia esistito. La scelta sarà coerente, con l’orologio della vita rimesso esattamente al punto di partenza.
Lila non apparteneva alle mezze misure. Elena, per quanto coraggiosa, era più ondivaga. Era Elena, delle due, a poter diventare una scrittrice di successo, come è avvenuto, con il dubbio di limitare la propria notorietà all’epoca vissuta. Ma era Lila quella destinata a scrivere un unico capolavoro nel corso dell’esistenza, un testo capace di sfidare i secoli. Perché quello di Lila sarebbe nato dallo scavo in profondità, da quella profondità da cui era risalita la smagliatura più grande che per poco non aveva inghiottito Napoli: il terremoto del novembre 1980. Scavare fa cogliere a Lila i segreti del sottosuolo e le paludi e il sangue sui quali si è edificato un rione e un’intera città. Un mostro cavernoso che può rapire una figlia senza restituirla. La scrittura più potente, forse, riesce a prendere corpo solo da questa confidenza con gli anfratti lugubri del mondo e di noi stessi. Chissà se prima di perdersi definitivamente, Lila lo ha capito. La Lila che è in noi potrebbe, chissà, provare a raccontarlo.
p.s.
Credo che Elena Ferrante si nasconda proprio fra memorie partenopee, o al limite flegree. Al di là delle descrizioni di Napoli in questo suo romanzo, che paiono davvero da mappa del tesoro, emerge una grande consapevolezza espressa a chiare lettere: «Il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte». Essere nati a Napoli serve a farcelo capire.
Marco Caneschi
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