Arràssusìa
Ida Verrei
Fabio Croce Edizioni, 2015
pp. 166
15,00
“Lei è ancora con noi, Santino. Nei profumi e nelle voci del tuo vicolo antico, nelle crepe dei muri di tufo della tua casa, nel canto della risacca sugli scogli di Mergellina, nel colore del glicine scordato. Nel riso di figli non suoi.” (pag 166)
Se Napoli oggi ha un cantore, è Ida Verrei, (di cui Michele Rainone ha già recensito "Le primavere di Vesna") un’autrice che s’identifica con la sua città, anzi, è la sua città.
Non è la Napoli di Gomorra, la sua, ma nemmeno quella delle cartoline illustrate col pino, il Vesuvio e Pulcinella, è una città sotterranea, cimiteriale, scavata nel tufo. È una città che, anche in superficie, conserva lo stesso mistero, lo stesso collegamento arcano fra vita e morte. È, semmai, la Napoli del rione Sanità di Antonio De Curtis, e, soprattutto, di “Questi fantasmi” di Eduardo de Filippo, fatta di palazzi bellissimi e fatiscenti, di nobiltà decaduta, di collegi, di porticati, di meravigliosi scaloni opera dell’architetto Sanfelice, di parati scoloriti, di stucchi, di librerie raffinate, polverose e blasè, frequentate da vecchie glorie letterarie. Anche di popolo, però, di bassi affacciati su strade che costituiscono un ecosistema a parte, una cultura nella cultura. Una Napoli che c’era prima e ci sarà anche dopo Scampia e Gomorra, perché fatta di radici, di sangue, di archetipi culturali, “il nutrimento, ‘o sanghe, Manù, il sangue.”
Il collegamento fra la vita e la morte è il filo conduttore del libro. La morte non fa paura ai napoletani, anzi, ha una funzione consolatoria. Come avviene per Maruzzella, la coprotagonista, e le sue visite al cimitero delle Fontanelle, luogo incredibile, straordinaria cava di tufo con le sue cataste di teschi vittime della peste, oggetto di devozione e cura da parte dei cittadini di ieri e di oggi. Come avviene anche per Manù e la sua amicizia con il fantasma del piccolo Oreste, che appare nei momenti di passaggio, di trasformazione, di perdita, pronto a confortare e rincuorare.
Il protagonista è Vittorio Emanuele, detto appunto Manù, un ragazzo degli anni settanta. Ma la storia rimane al margine, le contestazioni studentesche sono vissute dal giovane con una sorta di isolamento scontroso. Inutile cercare nel testo la resa di una Napoli proletaria e problematica, sarebbe una forzatura ideologica. Manù appartiene, piuttosto, a una Napoli astorica, accettata così com’è senza giudizio e senza riserve, fatta non di accadimenti ma di emozioni: la paura del distacco e della perdita, l’amore filiale, l’amicizia, il perdono, la passione, i turbamenti del cuore e del corpo.
Altro tema è la nostalgia. Il tempo fugge, rotola via, lo si capisce anche dagli sbalzi temporali dati nei capitoli, ci trasforma fino a quando non ci voltiamo indietro e ci accorgiamo di quanta vita sia passata, di come le cose siano cambiate. Il passato appare pieno di fascino e daremmo tutto pur di tornare indietro. È ciò che accade a Manù quando ripensa alla vita in collegio, dura, difficile, ma pur sempre collegata alla giovinezza, a tutto quello che non può riavere.
“Molti progetti del passato avevano perso d’un tratto il loro fascino. Il loro posto pareva essere stato preso dal desiderio che il tempo si fermasse, che non corresse troppo, dalla paura che qualcosa potesse andare perso, senza che lui avesse avuto il tempo di assaporarne il gusto fino in fondo” (pag 145)
Quello della Verrei è uno stile connotato, poetico, che indulge nell’aggettivazione, che non ha paura dei sentimenti e della bellezza, che unisce parole e cose, alto e basso, sublime e plebeo. C’è un uso nobile della lingua napoletana.
“Arràssusìa è’ na parola napulitana bella assaje, vuol dire “lontano sia”, “non sia mai” o anche “caso mai”. E ha origini antiche. Vedi, Manù, i dialetti sono la storia dei popoli, il loro passato, non bisogna mai dimenticarli. E il nostro, in particolare, ha dentro tutto il bene e il male della terra partenopea. L’arte di arrangiarsi, per esempio, o la necessità del risparmio. Visto che simmo tutti puverielle, tutti poveri, noi facimme economia pure e ‘nu scioscio, anche di un soffio. Un solo vocabolo ci basta per raccontare un mondo, e una lettera, ‘na vocale ha il vigore di un’orazione. Impara bene la lingua italiana, sissignore, guagliò, ma pienza e suonna c’o napulitano, pensa e sogna in napoletano”. (pag 31)
Un libro ricco di fascino e di atmosfera, che ha un sapore antico, che riconcilia con la lettura e fa ritrovare quel gusto raro e quasi dimenticato di perdersi nei luoghi e nella trama di un racconto, di accarezzare personaggi ai quali voler bene come a una parte di noi stessi, come alle povere anime “pezzentelle” del rione Sanità.
“Anime sante, anime purganti
Io sono sola e voi siete tanti.
Andate avanti al mio Signore
E raccontategli il mio dolore.
Prima che oscuri questa santa giornata,
da vuje e da dio voglio essere cunzulata.”
Patrizia Poli
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